Sembra che si stia per chiudere un ciclo. Lentamente, molto lentamente, con un andamento slow, direi. Ma sembra proprio così. La recente notizia che il mondo della caccia nei suoi multiformi e variegati aspetti ha lanciato un progetto (Ambiente Legalità Lavoro) - da più parti anche contestato - che nei suoi diversi sottoprogetti ne prevede uno (Selvatici e buoni. Una filiera alimentare da valorizzare) a cura fra l'altro dell'Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, fondata da Carlo Petrini oggi presidente di Slowfood International, fa tornare alla mente la Sagra del Tordo di Montalcino.
Probabilmente mi ripeto - succede agli anzianotti come me - ma fu là, in tempi remoti, alla fine degli anni ottanta del secolo scorso, che al Carlin nazionale (ora internazionale) si accese quella lampadina che lo portò a calcare le scene mondiali a sostegno del cibo lento, etico e sostenibile: "contro l’appiattimento del fast food, riscopriamo la ricchezza e gli aromi delle cucine locali …” si leggeva nel manifesto di Slowfood.
E tutto nacque, lo racconta lui nella premessa a un suo libro, quando, nel 1986, allora patron di Arcigola, Petrini partecipò a quella festa di popolo. Me lo confermò personalmente, alcuni anni fa, con quella sua voce arrotata, con un po' di commozione, nel ricordare comuni amici cacciatori ormai trasmigrati negli alti pascoli.
Quel raduno conviviale di allora, a Montalcino, altro non era che il normale scorrere della vita di campagna, che per chi va a caccia e vive quelle atmosfere è ordinaria amministrazione. Personalmente - ecco che spunta un po' di protagonismo - nato e cresciuto in campagna, in epoche dove vivere slow non faceva meraviglia, mi ritrovai a provare le stesse sensazioni, quando per la passione per la caccia fui individuato, casualmente, da un grande personaggio di allora, Enrico Vallecchi, editore e direttore di "Diana".
A casa sua, a Firenze, ma soprattutto nei fine settimana nella sue amate crete senesi di San Giovanni d'Asso, quella era l'aria quieta che si respirava. Buon vino, lieti conversari e buona cucina. La sua filosofia, il sor'Errico la professava soprattutto nella convivialità. E la trasmetteva ai suoi tanti commensali. Che fossero capi di stato, ministri, alte personalità, artisti, letterati, grandi intellettuali o gente comune. Tutti, in ogni caso, affascinati dalla sua bonomia e tutti che ne apprezzavano semplicità e signorilità.
L'uomo fu indiscutibilmente protagonista sulla scena nazionale della caccia per oltre mezzo secolo. Infinite furono le sue iniziative per dare valore alla cultura venatoria. Su "Diana" prima di tutto, ma anche con l'Editoriale Olimpia, che pubblicò infiniti manuali tecnici e scientifici, valorizzò talenti, promosse concorsi artistici e letterari. Convinto com'era che, in un mondo che cambiava rapidamente, la caccia la si poteva sostenere soprattutto se fossimo riusciti a farne apprezzare le profonde radici culturali.
La buona tavola, quella toscana in particolare, era secondo lui un tramite ideale per rimanere collegati alle sane tradizioni campagnole. Tantissimi furono i trattati e trattatelli di cucina che pubblicò e ripubblicò nel corso degli anni.
Negli ultimi decenni del secolo, i suoi insegnamenti furono messi a frutto da coloro che si erano formati grazie al suo impegno. Fu così che fin dalle prime edizioni del Game Fair (1991) furono proposti interessanti "laboratori del gusto", alla maniera di Slowfood. Vi contribuirono personaggi unici, come Roberto Fidanzi, il norcino Falorni (pisano), il giovane Federico Cenci (con i suoi "petti di colombaccio"), Giovanni Franceschi e i suoi manicaretti con le alzavole e le folaghe, i ragazzi di Amelia col "palombaccio alla leccarda", i cinghialai di Pescia Fiorentina e tanti altri.
Nel 2002, a Firenze, si celebrò la prima settimana della gastronomia venatoria ("I sapori della caccia"), che vide partecipi una cinquantina di ristoranti cittadini, personalità della cultura e della gastronomia di livello internazionale, ed ebbe vasta eco sulla grande stampa e nelle televisioni, un successo di popolo che fu ripreso negli anni successivi (fino ad oggi) prima a Milano e poi in gran parte della Lombardia.
Oggi, l'abbondanza di ungulati, cinghiale soprattutto, fa sì che non ci sia trattoria di campagna o ristoratore avveduto (anche di grido) che non si cimenti con dei gustosi piatti a base di selvaggina. Mentre certi miopi legislatori, anche di recente, fanno di tutto per uccidere una cultura del buon vivere che nei paesi guidati da governati meno rozzi dei nostri è acclamata a furor di popolo.
Fa piacere quindi, che, finalmente, anche la nostra attuale classe dirigente venatoria si sia accorta che le buone pratiche del tempo andato, abbinate al glamour di tutto rispetto di certe sigle, possano pagare di più di tanti altri e diversi clamori. Perchè della bontà della caccia (e della selvaggina a tavola) noi cacciatori siamo convinti da sempre. Gli altri - la gente comune, quella che chiamiamo opinione pubblica - sempre più distratti dagli odierni frastuoni, hanno bisogno che qualcuno, con lentezza, solleticandone le papille del gusto, glielo ricordi. Avanti così!