Una volta si diceva che la guerra è una cosa talmente seria per lasciarla in mano ai militari. Oggi corre sempre più voce che il patrimonio faunistico nazionale, leggi selvaggina, è talmente importante che non si può lasciare in mano ai cacciatori. Da una parte si usa il deterrente dell'animalismo: prima la caccia costituiva per molti una soluzione alimentare, oggi non ha più senso; tutti gli esseri viventi hanno diritto di vivere e di non soffrire. Dall'altra il pietismo lugubre: la caccia fa più vittime della strada. Dall'altra ancora la protesta pelosa: la selvaggina fa danni all'agricoltura e i cacciatori non sono in grado di risolvere il problema, perchè hanno interesse a dare sostanza alla loro passione.
Quindi?
Quindi, dicono gli animalisti, ben ispirati da settori economici che lucrano sempre di più sulla ingenuità di tanta gente, oggi ingabbiata soprattutto dal movimento grillino, la gestione della fauna selvatica datecela a noi. E già si sono attrezzati, accampandosi armi e bagagli nella stanza dei bottoni del Ministero dell'Ambiente.
Ma, dicono gli agricoltori, la selvaggina - certa selvaggina, ungulati, corvidi, lupi - rende vano il nostro lavoro: fa razzie nei campi e nei vigneti, uccide pecore e vitelli, attenta alla stabilità dei nostri bilanci. Tuttavia, anche loro, gli agricoltori, sotto sotto - da sempre - fanno di tutto per avere maggiore voce in capitolo nella gestione della selvaggina, che potrebbe costituire (e per alcuni già lo è) un consistente valore aggiunto al reddito d'impresa.
Fra l'incudine e il martello, i cacciatori cercano giustamente di difendere i loro diritti, consapevoli del grande patrimonio naturale e venatorio che con grandi difficoltà sono ancora chiamati a gestire, e del peso ormai in gran parte economico che questo rappresenta per altre componenti della società. Società che nel frattempo è cambiata, e non certo a loro, nostro, vantaggio.
E pensare che la soluzione potrebbe essere a portata di mano, se come al solito la demagogia, la chiacchiera, non prevalessero sulla ragione, sul buon senso. Un giusto equilibrio fra le diverse sollecitazioni - tutela, agricoltura e prelievo venatorio - potrebbe costituire la partenza di un nuovo corso, in sintonia, forse non casualmente, con le odierne sollecitazioni per quel green deal di cui si parla.
Recenti indagini ci dicono che l'opinione pubblica, massacrata quotidianamente da messaggi fuorvianti, potrebbe essere anche favorevole al forte contenimento dei cinghiali, per ridimensionare i tanto sbandierati danni e pericoli, ma guai a parlare di riduzioni drastiche di cervidi, tantomeno di violazione dei diritti inalienabili di orsi e lupi. Questioni, queste dei grandi predatori carnivori, badiamo bene, che poco incidono sulle vicende strettamente venatorie. Semmai riguardano gli agricoltori, finanziatori (non solo loro) dei movimenti ambientalisti, che adesso non riescono quasi più a controllare. La cultura metropolitana, tipicamente ambientalista-animalista, ormai predominante anche nel nostro paese, mal si concilia col sudore della fronte.
E intanto la natura fa il suo corso. I troppi lupi sull'Appennino scacciano a valle cinghiali cervi e caprioli; da parte loro questi invadono le ubertose pianure, gelose depositarie delle preziose eccellenze dell'agroalimentare; la politica cerchiobottista annaspa nell'invadente burocrazia; l'unica soluzione a buon mercato, quella della doppietta, vacilla ad ogni cambio di governo sotto la spinta di alterne sollecitazioni.
Tempo fa, qualche anno addietro, circolò con insistenza la voce di un progetto fortemente sostenuto anche da ambienti umanitari fra i più radicati e tradizionali, che prevedeva nuova vita per le terre abbandonate dell'Appennino, capace di offrire reddito ai proprietari e lavoro ai molti diseredati che si affacciavano sulle nostre coste. Una specie di enorme allevamento brado, da nord a sud, pecore capre mucche vitelli, sorvegliati da pastori pachistani, indiani, africani, per rifornire di carne di qualità il mercato nazionale e internazionale. Il cambio di priorità delle emergenze, leggiadro vezzo del Belpaese, ha accantonato il disegno. Almeno per ora.
Eppure, volendo, cambiando i soggetti, da domestici a selvatici, razionalizzando il sistema - in Emilia e un po' anche in Toscana ci stanno provando - potrebbe essere a portata di mano. Con i cacciatori protagonisti. Organizzati, ovviamente. E qui l'esperienza delle squadre di cinghialai può essere sicuramente un ottimo punto di partenza, insieme a tutte le organizzazioni che sul territorio si occupano di caccia e gestione faunistica, migratoria compresa, armonizzate da regole, anche nuove, o antiche e quindi quasi rivoluzionarie, che tengano conto dei diversi interessi. Anche per superare certe emergenze. Alluvioni, incendi, frane, inquinamenti e schifezze varie, tutte sgradevoli realtà i cui effetti potrebbero essere ridotti a dimensioni accettabili, se ci fosse più consapevolezza, più presidio responsabilizzato e più "interesse". Magari creando pure nuove opportunità di lavoro. E un implicito ritorno dei giovani fra le nostre fila.
La miglior difesa è l'attacco, si dice, e allora perchè - di fronte all'incalzare dei nostri antagonisti, che certamente non hanno una soluzione che ci trovi soddisfatti - le nostre rappresentanze non si mettono almeno una volta d'accordo e s'impegnano a ripensare in termini strettamente attuali un futuro dei territori - negli ultimi 25 anni abbiamo perso più di un quarto delle terre coltivate - che veda anche i cacciatori protagonisti?
Oggi, interdipendenti come siamo, le conoscenze non mancano. Esperienze di altri paesi possono anche essere utili, magari per rafforzare questa peculiarità esclusivamente italiana, che fa della caccia un'attività democratica, popolare e sempre appassionante.
Alessio Corsaro
Nota: qualsiasi manuale di management insegna che un sistema frammentato ha scarso potere contrattuale. Un principio di cui bisognerebbe fare tesoro.