I numerosissimi interventi, un record mi pare, che hanno arricchito le mie modeste considerazioni, pubblicate sotto il titolo “C'era una volta...”, mi portano – ma già l'avevo immaginato – a ritornare sull'argomento, per dire la mia almeno su alcuni “post” (si dice così, mi pare) che ho riletto con attenzione.
Già in un commento a caldo, facevo intendere che quando si vuole si può. A Pescia, la mia città, - scrivevo - “oggi l'unica associazione presente è la Federcaccia. A Pistoia la Federcaccia è sopra l'80%. Siamo in buona parte migratoristi, in parte tordaioli in parte padulani, ma in parte consistente anche cinghialai, e per quello che riguarda i selettori, le nostre compagini non sono seconde a nessuno. In pratica già ci siamo inquadrati per specializzazione. Ma associativamente siamo praticamente tutti insieme. A mio modestissimo avviso – precisavo - se continuiamo a distinguerci invece fra quelli che vivono il presente e quelli che indulgono a nostalgie, ci si dimentica che in questi vent'anni non è la caccia, non sono i cacciatori, solamente, ad essere cambiati. E' il mondo intero che è cambiato. Anche quello di vent'anni fa si stenta a intravederlo nelle odierne vicende umane. Nonostante questo – mi permettevo di rilevare - la caccia esiste ancora e, sempre per il mio modesto orizzonte locale, i nostri cacciatori - con tutte le pastoie che sappiamo - non hanno gran che da lamentarsi, quanto a risultati. Per l'unificazione, mi pare che ovunque i cacciatori, nella loro stragrande maggioranza, la desiderano. Certe differenziazioni nascono da qualcos'altro. In ogni caso, il nostro primo e più importante obiettivo è quello di difendere la nostra passione. Da quello consegue tutto il resto. Ma se non siamo uniti, sarà più difficile, proprio per il mondo in cui oggi ci troviamo ad operare, che, lo ricordo ancora, è cambiato e nessuna associazione venatoria riuscirà a farlo tornare indietro. Che non vuol dire che non si possa aspirare a condizioni migliori anche per i cacciatori. Ma questo secondo me viene dopo, può venire solo dopo che saremo di nuovo un unica famiglia.”
Lo so, lo sappiamo, lo voglio ricordare a Bekea, da canuto cronista quale sono, in questi decenni la caccia è cambiata. Ma non dimentico che prima del boom economico, salvo qualche pochissima eccezione, ognuno di noi cacciava nel proprio territorio. Chi aveva disponibilità e poteva spostarsi, lo faceva con grandi difficoltà. In treni (ricordate Aldo Fabrizi e Totò?) che erano poco più che tradotte militari, in macchine che se ti si fermavano perdevi un giorno per trovare un meccanico, in lande desolate, passando per strade che la Salerno-Reggio Calabria sarebbe sembrata una dieci corsie californiana. Caricavamo (anzi, ricaricavamo più volte) le cartucce. Si sparava il giusto, anche ai piccoli uccelli. Poi, col boom, aumentarono anche i cacciatori, che dalla campagna nel frattempo erano andati ad abitare e lavorare in città, ma nei periodi giusti cominciarono a sciamare di nuovo per lo stivale, creando i primi dissapori, non con gli ambientalisti, ma con i colleghi residenti e con gli agricoltori. E' mia opinione, ma sono pronto a discuterne con dati di fatto, che i primi movimenti ambientalisti moderni nacquero in Italia dallo stesso mondo della caccia, per una diversa e contrapposta idea di come doveva essere gestito il rapporto fra cacciatore e territorio, idea che più si delineava e più creava divisioni nelle nostre file. Ricordate? Libero cacciatore in libero territorio: la “Bella vita vagabonda” di Barisoni, che ai miei tempi trovò il suo più grande cantore in Gin Bardelli, amico carissimo, insuperato polemista, che passava da Diana a Caccia e Pesca (e viceversa) se solo gli mettevi un titolo che non era di suo gradimento. Le associazioni stesse, si distinguevano soprattutto per concezione filosofico-venatoria. La Libera, ovviamente, ma anche l'Arcicaccia prima maniera, il “sindacato dei cacciatori”, la battaglia contro le riserve della stessa Federcaccia, che peraltro era contestata perchè in molte aree del paese gestiva direttamente le proprie. L'EPS, ovviamente sull'altra sponda. Sul suo giornale (diretto da Pietro Chilanti) si rifugiava il prima transfuga poi rinnegato Fulco Pratesi. (A proposito, giorni fa Stefano Malatesta, grande inviato di Repubblica, ne ricordava i meriti, dimenticando tuttavia che con altri sodali non aveva dato proprio il meglio di sé nella gestione del Parco d'Abruzzo; intendo riferirmi alla spensierata gestione del denaro pubblico, certificato in alcune aule di tribunale, da dove peraltro il Fulco uscì indenne: poi si dice che la nostra giustizia è...giustizialista).
E nella diversificazione che rispecchiava le contrapposizioni ideologiche culturali sociali e politiche, si inserì presto la corsa all'accaparramento del socio. Che costituiva numero (allora consistente e pesante soprattutto nei tumultuosi momenti elettorali) e affari. L'obbligatorietà dell'assicurazione, ovviamente indispensabile, fu uno degli elementi di scontro anche nei primi tentativi per ricondurre sotto un unico tetto tutte le anime del nostro variegato mondo. Pur giovanissimo, e del tutto inesperto, ero presente al primo incontro - dei “baroni”, come li chiama oggi Falco, “feudatari” per Tordaiolo - sollecitato da Diana (e un po' anche dal sottoscritto, lasciatemelo dire), che portò alla costituzione del Ciav, primo passo verso l'Unavi.
Anche questo, la guerra per la tessera, non consentì e non ha consentito fino ad oggi una corretta gestione della caccia, come giustamente fa rilevare Vecchio Cedro, quando reclama l'abrogazione dell'art. 842 del Codice Civile. E in effetti, da questo particolare regime di giurisdizione discende tutto il busillis nostro. Ancora oggi, a me sembra sia questa la peculiarità della caccia italiana (il cacciatore ha diritto di accesso ai fondi dei privati, situazione difficilmente riscontrabile in altri paesi, d'Europa e del mondo), rafforzata vent'anni fa dall'art. 1 della 157 (“La fauna selvatica è patrimonio indisponibile dello Stato...”), principio che gode tuttora di ampio consenso fra i cacciatori. Anche se recenti proposte di legge, sotto sotto, promettendo miracoli da una parte, miravano a togliere autonomia diffusa dall'altra. C'è da dire, a questo proposito, ma lo sanno tutti, che di fronte a ricorsi (francesi) presso Corti europee, per rivendicare diritti di privati a consentire o meno l'attività venatoria in casa propria, con l'avvento della 157 e con gli ATC, il pericolo per noi, in Italia, è per il momento sventato. Come dire che tutto il male non viene per nuocere. Ovvero: si può essere d'accordo sulla eccessiva burocratizzazione e cattiva gestione di gran parte degli ATC, ma per ora, grazie proprio a questo istituto, la caccia cosiddetta o largamente considerata “popolare” è salva.
Mi fa piacere che, tornando all'unità almeno di intenti, in provincia di Lucca funzioni il coordinamento interassociativo. Ottimo. Ne ero al corrente, ovviamente; come del resto tutti sanno, in Toscana, che stante l'impasse nazionale, nella nostra regione, pur tra mille difficoltà, il processo di unificazione sta andando avanti. A piccoli passi. Tanto per tornare a Pistoia, nell'ATC, unico, la rappresentatività venatoria è espressa concordemente dalle associazioni presenti sul territorio: Federcaccia (il cui delegato ne è il presidente), Arcicaccia, LiberaCaccia.
Quello che ancora manca, lo rileva Ezio, è quantomeno un coordinamento che ci aiuti – in tempo di crisi profonda – a razionalizzare i costi e coordinare gli “investimenti”, dove per investimenti si intende una politica lungimirante che sopperisca a quanto l'ente pubblico non garantisce più, ammesso che mai l'abbia garantito. Ovvero: ricerche serie (per la migratoria la Face è su questa strada e con i suoi Stincardini Amore Sorrenti e Cannas fa cose egregie); piani di gestione oculati e coordinati integrandoli con i piani territoriali e di tutela; un'unica assicurazione, ripeto, un'unica assicurazione; un conseguente piano di comunicazione, perchè, insisto da decenni, le cose che facciamo a tutela del patrimonio naturale del paese e a favore della società in genere, col nostro volontariato, sono avanti anni luce rispetto a quello che fanno tutte le associazioni ambientaliste messe insieme, brave a comunicare, ma inesistenti o quasi sul territorio. Soprattutto se gli togli i pingui fondi statali (e gli stipendi che certi personaggi percepiscono, imboscati come sono nella miriade di consigli di amministrazione e di burocrazie), che a volte provengono dalle nostre stesse specifiche contribuzioni pubbliche.
Tornando a bomba sulla diversa realtà della nostra caccia rispetto al passato, è vero, è cambiata, per certi versi anche radicalmente. Tanti si sono convertiti al cinghiale, vero e proprio sboom italiano. Non pochi cominciano ad avvicinarsi ad altra caccia di tradizione europea. Ma anche i migratoristi, diminuiti ma ancora assidui, più o meno soddisfatti, tengono alta la bandiera e in buona parte contribuiscono a conservare quelle preziose conoscenze ornitologiche a supporto di una scienza che altrimenti si perderebbe in chiacchiere e distintivi.
Insomma, non siamo soltanto fagianai da pollaio, e anche fra il multiforme popolo della cinegetica, oggi come ieri, c'è da togliersi tanto di cappello. Quella nostra italiana è ormai una caccia permanente. Composita, che si delinea sempre più per categoria piuttosto che per insegna associativa; e mi piacerebbe, ci piacerebbe, s'incamminasse rapida verso un'unificazione seria.
Giuliano Incerpi