Artemide Di Efeso, dea della fertilita'
I parchi, dateceli a noi, fateci il piacere. Tanto, peggio di quello che avete fatto voi, politici politicamente corretti e ambientalisti della domenica, non potrebbe fare nemmeno quell'orco della favola che voleva papparsi Pochettino, o Poghettino che dir si voglia a seconda del vernacolo di riferimento.
Del resto, i parchi, in origine furono i "barchi" da caccia, famoso soprattutto il Barco Reale Mediceo, sulle colline del Montalbano, una ventina di chilometri a ovest di Firenze, voluto dal Granduca Ferdinando II dei Medici per praticarvi la caccia. E lo dice la parola stessa, che si perde nella notte dei tempi, barricus in latino, poi parricus e quindi parco in italiano, con le varianti localisitiche più disparate, e pferch in tedesco. Ma tutte a indicare un'area piuttosto vasta, recintata, adatta a racchiudere, trattenere animali. Per la maggior parte selvatici, quasi sempre per i piaceri della caccia, cui si dedicavano i signori del luogo.
Nel Barco Mediceo, ricco di boschi, circondato da cinquanta chilometri di muro, stanziava o si fermava in abbondanza ogni specie di selvaggina, la tipica toscana e italiana delle colline e delle pianure: lepri e cinghiali, cervi e daini e caprioli. E uccelli, ovviamente, stanziali, e nelle epoche giuste quelli di passo. Nel Museo Storico della Caccia nella Villa Medicea di Cerreto Guidi era conservato un bel "capanno" da caccia "a portantina", che consentiva al Granduca di giungere al luogo di caccia senza sporcarsi le scarpe (e sparare dalla finestrella). Con una gestione oculata del territorio, anche il bosco era protetto, si prevedeva un taglio della legna per decime, la caccia era consentita solo al signore e a coloro da lui invitati.
Stesse storie per Venaria Reale immersa nel parco della Mandria, lascito dei Savoia e ancora oggi meravigliosamente conservato. E' stata la caccia a preservare i territori, sono stati i cacciatori, con la loro passione, che hanno inventato l'idea di parco. D'altra parte, la stessa massima ancora oggi in voga, ce lo ricorda: senza ambiente non c'è selvaggina, e senza selvaggina non c'è caccia. Quale migliore affidamento, dunque, se non ai cacciatori, per preservare il patrimonio faunistico ambientale dagli innumerevoli assalti della modernità? Quale competenza migliore se non la nostra, per mantenere un equilibrio dinamico fra i diversi e a volte conflittuali livelli trofici? Il marasma attuale, che causa non pochi allarmi anche nell'opinione pubblica, fra catastrofisti ("stiamo perdendo la biodiversità") e gente infuriata (troppi cinghiali, troppe nutrie, troppe cornacchie, fra poco troppi colombacci), appalesa il fallimento di questi ultimi trenta-cinquant'anni di politiche ambientali. Una legge sui parchi che altro non ha fatto se non imbalsamare un esangue esistente, accentuare gli squilibri, lasciare mano libera ai rottamatori del Belpaese, spargere ovunque serbatoi di veleni, ecoballe, terre dei fuochi. Una legge sulla caccia che ne ha semplicemente snaturato il concetto. Dichiarandola in pratica proibita, salvo minime concessioni ("L'esercizio dell'attività venatoria è consentito purché non contrasti con l'esigenza di conservazione della fauna selvatica e non arrechi danno effettivo alle produzioni agricole"), per un "prelievo" non più di selvaggina da proporre in tavola, ma di "fauna selvatica patrimonio indisponibile dello Stato", su cui tutti hanno facoltà d'interdizione, mentre nessuno è in grado di garantirne la tutela. Col risultato, in questi decenni, che l'unico reprobo è il cacciatore, quando tutti gli altri attori sul territorio concorrono allegramente alla distruzione degli habitat. O quantomeno ne sono indifferenti spettatori.
Diversa aria tira altrove, in Francia per esempio, dove si riconosce alla caccia un ruolo determinate per la tutela dei beni naturali. E così in Spagna, nel Regno Unito, in tutta Europa, praticamente. Dove ai fasti delle cacce di un tempo si collegano ancora i miti eponimi, le tante leggende. Dal Nimbrod (Nembrotte) mesopotamico, alla Artemide Diana dell'era classica, dea della caccia e della fertilità, castigatrice di Atteone, che Ovidio nelle Metamorfosi ridusse a cervo sbranato dai cani della dea, a Uberto (Sant'Uberto) protettore dei cacciatori, vescovo merovingio di Maastricht (più santo europeo di così!), che ancora oggi i nostri..."nembrotti" celebrano in chiesa nelle sonorità dei corni di caccia, moderno retaggio dei corni naturali che risuonarono nelle selve omeriche per spronare cani e cacciatori all'insidia di cinghiali mitologici, o braccare la lepre secondo i precetti di Senofonte, discepolo di Socrate.
Chissà se quelli dei cinquestelle sanno di cosa si parla. Se sono in grado di capire le radici profonde della caccia nella cultura della gente mediterranea, che nel corso dei millenni e del susseguirsi delle sempre più vaste dominazioni, portò la civiltà in tutta Europa e in gran parte del mondo. Chissà!
Piero Galetti