Il 13 per cento degli italiani è assolutamente ignaro del fatto che la caccia sia regolata da apposite leggi europee, nazionali, regionali e provinciali. Non sa che ci sono tempi e luoghi prestabiliti, limiti al carniere e precise procedure che impediscono l'abilitazione venatoria di persone non affidabili o che hanno avuto problemi con la legge.Gli ignoranti della caccia (che corrispondono - per numeri - più o meno alla percentuale dei fanatici dell'insalata, per cui in Europa siamo al primo posto), riguardano una fetta di popolazione composta per lo più da donne, pensionati e giovani dai 18 ai 24 anni, con la licenza media o elementare e che risiedono nel ricco nord – est. Non molto meglio per il 38,8% degli intervistati, che alla caccia si dichiara totalmente estraneo: non ci è mai stato, non ha parenti cacciatori e non è mai entrato a contatto con questa realtà, anche se ha qualche sommaria informazione (passata con ogni probabilità dai media). Anche qui spiccano casalinghe, pensionati e residenti nel nord est. Sommando i due dati, si arriva a più di 24 milioni di italiani (45%), che della caccia sanno poco o nulla. Non stupisce infatti che la maggior parte di queste persone si dichiari contraria all'attività venatoria o che addirittura auspichi la sua totale abolizione (la Brambilla avrà mai visto un cacciatore da vicino?). Nella categoria dei "critici" spicca una figura tutta particolare, che a grandi linee pare proprio la stessa riferibile ai cosiddetti animalisti metropolitani. Per la maggior parte donne, residenti nei grandi centri abitati (con più di 250 mila abitanti), impiegati, quadri, insegnanti e casalinghe.
L'ignoranza sul tema è però indipendente dal grado di istruzione, visto che, come rileva la stessa ricerca, solo 5 dei 18 limiti imposti all'attività venatoria sono conosciuti da almeno la metà del campione, che è rappresentativo di ogni categoria sociale. In primis gli italiani (o meglio, il 65,1 per cento di loro) sanno che non si può cacciare su tutto il territorio italiano, scende al 58,4 per cento la fetta di popolazione che sa che non si può cacciare all'interno dei parchi, nelle zone percorse da incendi e sulle aree innevate. Ancora meno, (56.2%) sono gli italiani che sanno che la caccia si limita al prelievo delle specie non considerate in pericolo d'estinzione. Seguono le nozioni riguardo all'uso delle trappole (solo il 53,1% sa che sono proibite da quasi 35 anni) e quelle sui giorni di silenzio venatorio: per il 50 per cento degli intervistati i cacciatori sparano tutta la settimana durante la stagione.
Non è una tesi ma un dato di fatto, che al di là dei numeri oggettivi, risulta evidente anche dai modi in cui i media trattano l'argomento. Com'è possibile che servizi giornalistici siano pieni zeppi di imprecisioni e inesattezze di parte, sempre le stesse, ripetute fino alla nausea con una tale leggerezza? Se lo potrebbero permettere le Brambille e le Colò di fare leva sui sentimenti per buttare fango su una minoranza tutelata dalla legge e ad essa subordinata, se gli italiani sapessero la verità? Non dobbiamo certo essere noi a ricordare che è proprio sull'ignoranza che la politica del malaffare e della prevaricazione trova l'humus ideale.
Le campagne xenofobe fanno esattamente la stessa cosa calcando la mano sulle recondite paure dell'ignoto, insite in ogni essere umano. Sul fatto, per esempio, che l'individuo diverso da noi possa privarci di un tratto fondante della nostra identità o possa costituire una minaccia per la nostra famiglia e per uno status sociale raggiunto a mala pena dopo tanti sacrifici. Siamo tutti sottoposti al pericolo di essere ingannati e manipolati e nessuno deve mai abbassare la guardia. Tanto meno i nostri connazionali urbanizzati e malati di sensi di colpa di matrice disneyana (chi non ha pianto quando la mamma di Bamby muore per colpa della mano malvagia dell'uomo, profanatore della natura? Chi, di fronte ad una simile scena, vista a 8–10 anni d'età, non proverebbe un senso di rabbia e di profonda frustrazione tale da farne un tratto fondante della propria sensibilità?), che credono di avere tutti gli elementi necessari per valutare la situazione sulla base di nozioni passate in primis dalla televisione, che fa affari vendendo scatolette per cani e gatti.
La verità sta nei libri (eppure c'è chi non ha mai letto Hemingway o peggio, il nostro Rigoni Stern, uno dei pochi cacciatori graziati dal mondo ambientalista, forse per le sue indiscusse doti comunicative), nelle mille delicate economie rurali che ancora sopravvivono a stento nelle nostre campagne – da esplorare in ogni regione, altro che vacanze a Ibiza o in Costa Azzurra (vero Brambilla?) - nella sapienza dei vecchi, che sanno come interagire in modo sostenibile con l'ambiente, perchè lo hanno fatto naturalmente, per necessità e che oggi guardano con malinconia alle trasformazioni moderne. Basterebbe parlare con loro e con chi da loro ha cercato umilmente di trarre insegnamento, praticando oggi la caccia, per non farsi sopraffare dalla vita anestetizzante di tutti i giorni, che ci tiene lontani dalle cose concrete.
Se il messaggio che continua a passare è “caccia selvaggia”, anche se il 54 per cento degli italiani riesce a capire che c'è una bella differenza tra sparare per divertimento ed applicare i sani principi della gestione faunistica, non possiamo stupirci se tanti nostri avversari siano in grado di strillare al massacro e di farsi ascoltare. A loro vorremmo chiedere: hanno mai visto un cacciatore? Ci hanno mai parlato? Hanno mai passato una giornata con loro? Hanno mai ascoltato le esigenze degli agricoltori? Probabilmente no.
Dal sondaggio di Astra Ricerche, a conferma di tutto ciò, emerge un dato fondamentale: “esiste una correlazione statistica assai forte tra la notorietà delle norme, il consenso per esse e una buona valutazione della caccia. Circa un terzo di coloro che si dichiarano ostili alle attività venatorie è totalmente o quasi non informato sui suddetti vincoli”. Vincoli che tra l'altro risultano approvati e appoggiati sempre (in ognuno dei 18 casi) dalla maggioranza della popolazione.
La morale che ne deriva, è che ci dobbiamo dar da fare, ognuno nel suo piccolo, a far conoscere queste cose alla maggior parte delle persone con le quali abbiamo relazioni, senza piagnistei rivendicativi, ma con tutta la determinazione che serve per rendere chiara una realtà che è nota quasi solamente a noi.
Cinzia Funcis