Non ce n'era bisogno, ma anche le recenti vicende, che hanno riempito i giornali di mistificazioni sulla caccia, ci insegnano che in fatto di comunicazione la strada dei cacciatori per recuperare un minimo del consenso perduto è ancora lunga e tortuosa.
Nella società odierna, lo sappiamo tutti, la comunicazione riveste un ruolo determinante. La caccia, lo abbiamo visto, soprattutto in Italia, ma comunque anche in molti altri paesi d’Europa, è oggetto di frequenti e a volte anche aspre critiche.
L’opinione pubblica, a più riprese sollecitata strumentalmente, si è fatta un’idea distorta di quella che è la nostra attività, dei valori che racchiude, dell’importanza che rappresenta anche sotto il profilo sociale e economico.
Basterebbe a mio avviso ristabilire una minima verità su questi argomenti, per recuperare consensi, se non addirittura per attivare un movimento popolare a sostegno della nostra categoria.
Il fatto è che, mentre il mondo ambientalista e soprattutto le organizzazioni a noi avverse hanno fatto un uso appropriato dei mezzi e dei sistemi della moderna comunicazione, le nostre organizzazioni, i nostri rappresentanti, noi stessi, ci siamo attardati su posizioni di retroguardia. Forse, abbiamo pensato: noi siamo nel giusto, prima o poi la verità verrà a galla.
Purtroppo così non è stato. Oggi, ce ne dobbiamo convincere, conta sempre meno ciò che è. Ha valore invece e soprattutto ciò che appare. E noi, almeno per ora, abbiamo dimostrato di non essere all’altezza.
Il problema ha sfaccettature infinite. Da una parte, c’è l’opinione pubblica, che va governata, altrimenti il nostro futuro sarà sempre più pieno di difficoltà. Dall’altra, ci sono le nostre varie attività. E anch’esse vanno altrettanto sostenute. Non è possibile infatti gestirle a solo nostro uso e consumo. Bisogna confrontarsi con realtà ben più vaste e complesse, che spesso sfuggono da ogni controllo. Ricordo, ad esempio, anche con un po’ di nostalgia, le diverse correnti di pensiero all’epoca della costituzione, diversi decenni fa ormai, del Club della Beccaccia. C’era chi ne voleva parlare – soprattutto sui nostri giornali: “Diana” ad esempio fu fra i promotori – per fare proseliti e per consolidare una cultura di categoria, e chi invece sosteneva che parlandone si sarebbero accresciute a dismisura le schiere degli specialisti, con danno conseguente sia per l’elite di coloro che allora la praticavano, sia per la beccaccia, soggetta a troppa pressione venatoria. Poi abbiamo visto che con l’evolversi della società (maggiori risorse economiche, migliori e più rapidi mezzi di trasporto, una comunicazione in tempo reale, compreso il telefono satellitare oggi a disposizione di tutti), e anche una certa cupidigia, diciamolo sinceramente, la difesa corporativa non era la strada giusta. E così è stato per tutto il resto.
L'evolversi di tutte queste cose non era, e non è, controllabile nel nostro ambito ristretto. Bisognava e bisogna agire su fronti diversi. Il mondo è diventato più piccolo, a portata di tutti nell’arco della giornata. Le specifiche normative sono un limite facilmente superabile: basta mettere i piedi fuori confine e tutto cambia. I problemi dei cacciatori e della selvaggina vanno governati a livello internazionale, globale, non dipendono (soltanto) dalla regolamentazione della caccia, ma sono invece sempre più collegati alla salute dell’ambiente, a quella dei singoli territori, a quella del pianeta. All'opinione della gente. All'opinione, che è frutto della realtà percepita, non della realtà senza aggettivi.
Cosa fare dunque, in fatto di comunicazione, per garantire un futuro più tranquillo per noi e per i cacciatori delle prossime generazioni, e soprattutto per consentire a tutti, non solo a noi, di poter godere della presenza sul territorio di fauna selvatica di qualità, visto che anche il futuro della fauna e dell'ambiente dipende in parte dal nostro impegno?
Anche qui, la questione comporta diversi scenari. Quelli collegati ai mezzi di comunicazione, quelli insiti nei vari linguaggi da adoperare, quelli dove definire gli argomenti da proporre. Ognuno da finalizzare ai diversi obiettivi che ci dobbiamo prefissare. Farò semplicemente qualche accenno.
Nei riguardi dell’opinione generale, è indispensabile essere presenti su tutti i mezzi d'informazione di massa (grandi giornali, televisioni), e anche – se vogliamo intercettare il nuovo – sui nuovi e straordinari mezzi che mette a disposizione il web: portali, siti, blog, posta elettronica, youtube, facebook. Insomma, internet in tutte le sue forme. E poiché, molto spesso la diffusione delle nostre verità non dipenderà da noi, il linguaggio dovrà essere percepito come semplice, sintetico e senza specialismi, adatti solo agli addetti ai lavori. E tuttavia rigoroso, tecnicamente e scientificamente inattaccabile.
E i contenuti? Non basta parlare di albe e tramonti, di passioni ataviche, di tradizioni venatorie. A volte può essere anche controproducente. Fra la gente comune non attacca. Non ci capiscono. Meglio dedicarsi all’impegno dei cacciatori nel volontariato, nella tutela dell’ambiente, nella salvaguardia delle popolazioni faunistiche. Con i fatti: dati, cifre, statistiche, risultati scientifici. Meglio dimostrare disponibilità a collaborare con le istituzioni nelle battaglie ambientaliste. Si. Ambientaliste. Il cacciatore è un un ambientalista da sempre. Anche prima che l’ambientalismo diventasse di moda. Se ha perso questa prerogativa, almeno nell'immaginario collettivo, lasciando il campo spesso a congreghe “animaliste”, dovrà chiedersi il perché. Prima lo farà e prima recupererà lo spazio perduto. Meglio parlare di cultura di popolo, consolidatasi nel corso delle generazioni, collegata strettamente alla campagna, alla vita rurale. Meglio parlare di grandi personaggi del passato, appassionati di caccia (tutti sappiamo di Tutankamen, di Federico II di Svevia, di Lorenzo il Magnifico, che non andavano certo a caccia per sfamare se stessi e i loro familiari), e di testimonial odierni, come Baggio, Battistuta, che nonostante tutto non temono critiche nel professarsi cacciatori. Così facendo, sarà più difficile andare incontro a critiche.
Poi, ci sono sistemi con i quali, implicitamente, si fa comunicazione. Semplici e efficaci, pure a buon mercato, dipendono solo da noi, dai nostri comportamenti. Quando ad esempio si tengono buone relazioni con i vicini. Le armi, oggi, lo sappiamo, fanno paura. Un tempo si circolava anche in paese (e in città) con il fucile a tracolla e la selvaggina appesa alla cintura. Adesso è meglio non farlo. Occorre moderazione e riservatezza. E’ molto produttivo invece invitare gli amici e i conoscenti a cena. E far loro assaggiare qualche manicaretto a base di selvaggina. Se la cosa funziona, la volta successiva, si può passare alla proposta del regalo di un capo da cucinare, con qualche consiglio. E per socializzare, ci sono poi le cene popolari, le feste e le sagre. Comunissime oggi quelle del cinghiale. C’è ad esempio un mio amico della Padania, che un paio di volte all’anno, con la collaborazione di tutti i cacciatori del paese, in accordo col sindaco, cucina la selvaggina e organizza grandi pranzi per gli anziani e gli indigenti. Allestisce anche una specie di banco alimentare, per distribuire la selvaggina in esubero a chi fa fatica a trovare i soldi per mettere in tavola un po’ di proteine della carne. Vi sembra poco? Con un minimo di attenzione, nei giornali e nelle tv locali si arriva anche a paginate e servizi interi con foto e interviste.
Poi c’è la musica. Mi viene in mente, fra i moderni, Branduardi (ricordate “Il dono del cervo”?), Lucio Battisti (favolosa “La luce dell’est”), ma anche un’introvabile Nicola di Bari che tradusse un successo del mitico cantante country John Denver. Si chiamava, la canzone, “Country road” (“strada di campagna, portami a casa”, diceva), e in italiano divenne, pensate: “Libertà”. In pratica la nostra canzone. Sia in americano sia in italiano. E' musica intramontabile, che va ancora alla grande. Basta diffonderla. Regalare un CD, inviarlo ad amici. Cantarla. Farne una specie di inno alla caccia.
Poi c’è la grande letteratura. Di ieri – penso a Lorenzo il Magnifico, ma anche a Tolstoi, Turgheniev, Maupassant, Hemingway - e di oggi. Chi non conosce, fra i tanti, il nostro Rigoni Stern e il grande romanziere sudafricano Wilbur Smith. Facciamone dono a chi è appassionato di lettura.
Poi ci sono i nostri grandi chef. Vissani, Marchesi, Pierangelini, fra i tanti. Se andiamo a indagare, è raro che nei lori menù non ci sia almeno un piatto eccezionale di selvaggina. Bisogna adoperarsi per farne parlare. E farli assaggiare. E' così che si possono guadagnare consensi, che passano attraverso il palato. Un alleato infallibile.
Poi c’è la scienza. E la ricerca. Approfondire la conoscenza dell’oggetto del nostro desiderio aiuta a meglio tutelarlo. Ma serve anche a dimostrare che noi più di altri ci adoperiamo per il bene della fauna selvatica. Basta farlo sapere, attraverso i canali giusti e con linguaggi acconci per arrivare alle orecchie della solita distratta opinione pubblica. E finora questo ci è mancato. O almeno non ha ottenuto l'effetto sperato.
E veniamo alla “nostra” comunicazione, quella che circola fra di noi. Le numerose riviste patinate, fra il tecnico e l’edonistico , assolvono ancora decorosamente al loro ruolo. A mio avviso, tuttavia, dovrebbero adeguarsi alle mutate realtà sociali e culturali in cui ci troviamo a operare. Oggi la caccia e i cacciatori hanno bisogno di strumenti “culturali” che consentano loro di sostenere il confronto con un mondo completamente diverso da quello di solo qualche decennio fa. Occorrono parole d’ordine, slogan, linguaggi diversi, una diversa e maggiore preparazione. Una diverso comportamento per rapportarsi a interlocutori estranei al nostro contesto, quando non palesemente ostili per partito preso. E' ovvio che le nostre riviste devono soprattutto far sognare. E' indispensabile: belle foto, bei racconti, begli argomenti, trattati con professionalità, non solo sotto il profilo venatorio, ma anche sotto quello editoriale, letterario, giornalistico. Particolari che oggi in alcuni casi lasciano a desiderare. Dovrebbero preparare i loro lettori, i cacciatori, ad affrontare le ostilità quotidiane, a proporsi come profeti della lieta novella, sacerdoti – scusate l’esagerazione – impegnati a diffondere un verbo sconosciuto ai più. Che è il verbo della vita agreste, delle cose semplici e meravigliose della natura, che offre peraltro – noi lo sappiamo bene – anche risvolti drammatici. Tragici. Basta pensare alla volpe che si fa fuori i leprottini. Chi se ne ricorda più, nel mondo “civilizzato”? Risvolti crudeli. Perchè non ricordare ai nostri consimili superconsumisti com'è che sulla loro tavola arriva il pollo, il coniglio, il piccione? Che mangiano peraltro con gusto, ma che probabilmente rifiuterebbero, se dovessero non solo fare, ma anche semplicemente assistere ai riti sacrificali operati dai nostri nonni, che compravano il pollo vivo al mercato, lo portavano a casa, gli tiravano il collo, lo spennavano, lo sbuzzavano.... Ricordiamolo, male non fa. Serve ad avvicinare il nostro modo di essere, naturale, a quello inconsapevolmente astratto della gente di oggi. Che non è stupida. E', come dicevo, soltanto un po' distratta!
Ecco, quindi, che per ribaltare i consensi, tutto dipende da noi. Abbiamo bisogno di tutti, nessuno escluso, ma non ci sono santi che possano fare il miracolo se non ci impegniamo noi direttamente, in prima persona. Tutti insieme. Il nostro futuro è nelle nostre mani, prima che in quelle dei nostri dirigenti e dei nostri capipopolo. Nella nostra volontà di fare qualcosa che possa migliorare la nostra immagine. Dopodiché, quando – soprattutto per le cose che facciamo per gli altri, per la comunità - avremo conquistato la fiducia, la stima di coloro che oggi ben che vada non ci capiscono, allora sì che potremo tentare di recuperare su quelle ingiustizie che oggi siamo costretti a sopportare. Chi volete che se ne importi – scusate la licenza linguistica – quando saranno convinti che noi siamo quelli che tutti vorrebbero essere?