A zonzo nel web, ho inciampato per caso in un sito siciliano di cacciatori, almeno così sembra, i quali prendendo spunto dalla trista situazione provocata dalla follia incendiaria di questi giorni, ne denunciano quelle che ad avviso loro sono le cause: i parchi e le aree protette, l'incuria che li avvolge, la legge con le quali sono amministrati, gli appetiti politici ed economici che ne hanno fatto un ideale strumento di potere. In effetti, stando alle cronache, da nord a sud, gli incendi che quest'anno hanno fatto finire in fumo decine di migliaia di ettari di boschi e macchia mediterranea si sono accaniti soprattutto con le aree protette.
Le associazioni ambientaliste, invece di porre l'accento sulle responsabilità, hanno come al solito puntato il dito sulla caccia, invocandone una moratoria totale, consapevoli che nei parchi la caccia è vietata e nelle aree attraversate dal fuoco automaticamente interdetta per dieci anni. Addirittura, un noto e popolare ambientalista da salotto, che rinunciò alla poltrona di presidente di un parco quando - strana coincidenza - il governo Monti decise di renderne gratuita la carica (oggi riportata a un più modesto emolumeno intorno ai 26-30mila euro annui), questo noto ambientalista ha avuto il coraggio di annoverare di nuovo i cacciatori fra le cause principali dei roghi. Quando ormai lo sa anche il gatto che dietro gli incendi si nascondono enormi interessi economici che muovono spesso dei disgraziati ad appiccarli, attivando così quel circuito che garantisce anche a loro la pagnotta. Qualcuno è arrivato, maldestramente, pure a ipotizzare che il passaggio della Forestale ai Carabinieri sia la causa di questa situazione. Ma basta recuperare i dati di questi ultimi ventanni per convincersi che non è così.
Quanto ai parchi in sè, tranne qualche rara eccezione (due-tre parchi nazionali su ventidue) la gestione economica non brilla (pesa per più di tre quarti sul contribuente), dai dati più recenti, quella amministrativa è in largo ritardo, di quella gestionale meglio non parlare se quasi un terzo dei bilanci vanno a finire nel personale (nei parchi nazionali 26milioni di Euro su 86 di spesa). Eppure, anche i parchi potrebbero costituire un volano di entrate che come minimo consentirebbe di alleggerire gli oneri dello stato e delle regioni. L'esempio del Parco delle Cinque Terre (che introita direttamente 17milioni su venti del totale) e del Parco del Vesuvio (5,5 su 7 totali) ne sono un esempio. Come fanno? Niente di eccezionale. Solo erogazione di servizi. Esiste, come negli altri parchi, un patrimonio, che è stato valorizzato economicamente. Tutto lì. Contribuendo a sostenere gli obiettivi d'istituto. A volte raggiunti, altre volte, purtoppo, in buona parte delle aree a parco, lontani da essere onorati. Senza contare che seguendo certi concetti che fanno capo a filosofie wilderness (ma in Italia di wilderness, natura primordiale incontaminata, non c'è praticamente niente) si sono create illusorie aspettative, molti danni, con il quasi unico risultato di aver interdetto l'attività venatoria (la pesca è in gran parte dei casi consentita) e dato la stura a quegli squilibri di cui oggi ci si lamenta. In più, l'ultimo rapporto nazionale sulla biodiversità ci dice che anche all'esterno agricoltura, infrastrutture, inquinamento e urbanizzazione hanno falciato intere popolazioni selvatiche (lepri e starne, per esempio, non se la passano meglio di tante specie di uccelli).
Perchè, allora, non facciamo in modo che - approfittando di questa manna piovuta dal cielo (PNRR) - anche in queste aree non si adottano metodi gestionali più consoni da una parte al riequilibrio di specie scappate di mano (controllo degli ungulati e di altre specie opportuniste) e dall'altra più adatti alla reintroduzione di specie (stanziali e migratorie) un tempo tipiche delle nostre contrade? Nei tre milioni di ettari teoricamente "conservati" ci sarà qualche spazio da recuperare o da ricostituire (unità poderali) per la lepre o la starna italiche, o ambienti più adatti a pivieri e pavoncelle, averle o tottaville? Così come sono, le aree protette sono solo strumenti di cupidigia, sempre più malsana. Serve una scossa, che almeno metaforicamente li bruci insieme alle tante ipocrisie ambientalisiche di cui si è infarcito il pensiero unico dominante anche in questo paese.
Valter Brunori