In ambienti ben informati si racconta una storia. Storia che noi riportiamo come una storia e che non intendiamo per alcunsiasi ragione avvalorare. Anche la più rumorosa voce di corridoio deve avere le sue decorose pezze d’appoggio, ma in questo caso la riportiamo lo stesso perché a nostro avviso una patente di verosimiglianza se la potrebbe meritare.
Allora. Ecco la favola. Si dice che in un tempo e in uno spazio indistinto un cinghialone baldanzoso con gli zannoni giovani ma aguzzi, nato bulletto di periferia, era finito per un caso fortuito – seppur piuttosto invalso - a sproloquiare in un arena ben più impegnativa dei suoi modesti mezzi. La sua prosopopea lo induceva a parlare senza freni di cose che neanche conosceva. Da cinghialone qual era, onnivoro, senza competitori di sorta, ma tartassato da contadini col forcone giustamente incavolati per le continue scorrerie nei loro campi, e da plotoni di cacciatori accompagnati da torme di cani uggiolanti che lo vedevano più come uno spezzatino che come un loro simile, pensò bene di ergersi a paladino delle categoria (animali selvatici, uccelli compresi) contro questi intollerabili soprusi venatori.
Appena gli capitò il destro, chiese udienza al capo camerata che decideva dei problemi faunistici e ambientali di tutto il continente e gli prospettò una situazione a dir poco grottesca. Non gli disse infatti che le sue terre erano continuamente soggette a disastrose alluvioni (anche a causa di galassie di nutrie che minavano gli argini dei fiumi). No. Non gli disse che nel suo paese la caccia non è consentita in almeno il cinquanta per cento del territorio. No. Non gli disse che i cacciatori delle sue contrade negli ultimi vent’anni erano più che dimezzati e – hailoro – anche conseguentemente un po’ invecchiati, quindi, inevitabilmente, avevano ridotto i loro ritmi. No. Non gli disse che in generale il patrimonio faunistico del suo paese – nonostante tutto – era il più ricco del continente e che – semmai - se fra gli uccelli c’era qualche specie a rischio, non era certamente da ricercare fra quelle che interessavano ai cacciatori. No, non gli disse che di quelle specie di uccelli di cui i cacciatori chiedevano la possibilità di diminuirne i contingenti perché (fra l’altro) facevano dei danni gravi ai raccolti, tutti gli indici ne certificavano l’abbondanza. Abbondantemente! No. Non gli disse che certi giudici che erano stati chiamati anche da lui a punire i colpevoli, non erano riusciti a trovare un briciolo di colpevolezza, anzi, avevano sentenziato che tutto quanto – pur nella confusione del diritto e del rovescio di quel paese – corrispondeva alle regole, rigorose più che altrove, e alle direttive superiori.
No. Da furbega com’era, gli disse che la situazione era insostenibile, che se non si metteva un freno a questi scempi ne sarebbe andato compromesso l’equilibrio biodiversitario, che lui, come comandante in capo, doveva subito intervenire dall’alto e col peso della sua autorità.
Il grande camerata, che a queste cose era aduso, sufficientemente informato (ma si preoccupò comunque di acquisire ulteriori informazioni presso fonti un po’ più imparziali) e peraltro preoccupato per ben altri problemi che proprio in quei giorni sovrastavano (economici, certo, ma anche ambientali), applicò l’aurea regola che da secoli i gesuiti hanno codificato. Lo rassicurò infatti che avrebbe adottato tutte le misure che la gravità del caso avessero richiesto. Cosa che fece, passando la patata, per la verità neanche tanto calda, al suo dirimpettaio, che aveva giurisdizione in loco. Gli chiese cioè – formalmente, come era abitudine fare – di informarlo se quanto denunciato dal cinghialone corrispondeva a verità; ma gli chiese anche come mai, se le cose stavano così, al limite del caos, non si era ancora provveduto a mettere le cose in chiaro, promulgando magari un editto con cui venissero definite delle linee (guida?) chiare e certe a cui chiunque dovesse disporre – barone, conte, marchese, margravio o governatore che fosse - potesse far riferimento.
Purtroppo, il grande camerata non aveva fatto i conti con l’inusitata faccia tosta del cinghialone, che appena uscito dall’udienza, cominciò a propalare urbi et orbi la solita balla spaziale che finalmente quegli impuniti dei cacciatori avevano trovato pan per i loro denti e che se chi dava loro retta avesse continuato ad assecondarli ne avrebbe pagato amaramente ed economicamente le conseguenze. A suon di talleri e talleri e talleri.
Ovviamente, nel suo paese trovò ascolto nella solita canea urlante, che doveva far dimenticare tante dimenticanze sul fronte della reale difesa dell’ambiente. Canea che quindi, immantinente, si associò al piagnisteo delle prefiche, ben orchestrate da complessi rock, stile beatles, e dai vari gatti mammoni e gatte di masino, e amici del giaguaro, che da tempo immemore si accompagnavano con pecore e pecorai, che quanto a fischi e belati fanno ancora la loro porca figura, anche se – diciamolo – pur mettendoli tutti insieme fanno poco più che quattro gatti spelacchiati. Degni compari di quei residui radical che più per abitudine che per convinzione – ben pasciuti come sono, nonostante i reiterati digiuni di maniera – innalzano sguaiati lamenti ogni volta che c’è da far numero, oggi con tizio, domani con caio, più che altro per garantirsi la molenda.
Le voci, per ora, non dicono come andrà a finire. Ma nella società del magna-magna, sia quella di rito romano, o campano, o milanese, non fa differenza, un posto alla greppia non si nega a nessuno. E una pacca sulle spalle nemmeno. Fino alla prossima sceneggiata.
Vieri Casetti
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