Sarebbe bello approfondire la differenza o le coincidenze fra le due parole del titolo. A lume di naso, la seconda, per li rami, deriva dalla prima, attenendo sicuramente ai comportamenti formali, ma che nel suo uso corrente corrisponde sempre di più a un segnale, un simbolo, un emblema che identifica.
E di identità vanno fieri certi moderni cacciatori, che tengono di più alla spilla sul loden che alla considerazione di sodali nella passione venatica hanno di loro, probabilmente conoscendone qualche pur raro malvezzo, spesso ascoso in ampi freezer.
In un epoca di grandi e repentini cambiamenti come la nostra, il modesto cacciatorello di piccola penna, il capannista, quello che riforniva lo spiedo di Castagneto, erede di una civiltà agreste che nei millenni pone il tordo (cantato da Orazio e Marziale, allevato già da Lucullo) al vertice delle carni di pregio e ne tramanda le forme di caccia, con un solo sostanziale cambiamento avvenuto ormai due-tre secoli fa con l'avvento dello schioppo, questo modesto cacciatorello mai ha ostentato etichette, purtuttavia ha conservato un'etica.
Quella si, figlia di comportamenti sedimentati nel tempo, deriva olistica di una cultura che si alimentava di un contatto quotidiano con il creato, il divenire delle stagioni, la vita e la morte strettamente e indissolubilmente collegate. Il seme, escremento della digestione di un altro essere vivente, che a contatto con la terra, grazie all'acqua e al sole e agli alimenti concessi dai lenti processi di decomposizione e rigenerazione, esplodeva in nuovo virgulto che diventava pianticina e poi pianta robusta e poi fiore e frutto succulento, ancora e di nuovo in grado di mutuare energia vitale.
Discorso complesso, di cui anche l'illetterato di un tempo aveva tanto da insegnare agli altrettanti saputelli, tuttologi, carenti tuttavia di esperienze sul campo. Mio nonno, per esempio, che peraltro recitava a memoria intere terzine della Commedia, o lunghi brani dell'Ariosto, aveva tale e tanta dimestichezza con il respiro della vita in campagna, che veniva naturale per lui trasmettermi quella sapienza nelle lunghe mattinate al capanno, in attesa del primo tordo, all'alba o, dopo il sorgere del sole, fra una schioppettata e l'altra ai prispoloni e ai beccafichi prima, in agosto, ai fringuelli e alle peppole più tardi, in settembre-ottobre. Il fuciletto, che ogni tanto mi veniva concesso, non era un prezioso 410, anche se di piccolo e a volte piccolissimo calibro. La prima volta, per me, come per tanti di allora, fu con un vecchio Carcano, modificato a canna liscia.
Era etica, quella caccia? E' ancora etica oggi? Si, certamente, per ieri. Per l'oggi, ancora un si, seppure condizionato dai mutamenti sociali e obbligatoriamente dalle normative, nazionali e comunitarie. A mio avviso ingiuste, almeno così come sono state espresse e consolidate sotto il martellamento di una vergognosa politica anticaccia.
Ieri, il ceto che praticava la caccia al capanno, e comunque ai migratori, non solo piccoli, era quello rurale: agricoltori, mezzadri, gente comunque di campagna (o di bosco, o di palude: e viene in mente Gramignani: "Fra cime, boschi e paludi"). Gli spostamenti a piedi o con i mezzi di allora (soprattutto una bicicletta o al massimo una motoretta) permettevano "prelievi" contingentati nel tempo e nello spazio, condizionati dal passo di ogni specie di interesse venatorio. Non c'erano limiti di carniere, e ancora oggi, questa condizione non dovrebbe creare problemi se collegata all'appartenenza a uno o più atc nel periodo di transito, come del resto è previsto dalla legge vigente. Perdipiù, parchi e aree protette, che coprono ormai in alcune regioni più del 30% del territorio, possono essere equiparati a veri e propri santuari per la fauna migratoria. Ad una condizione, ovviamente: che siano vere e proprie oasi dove gli uccelli possano trovare riparo e ricovero (soprattutto dai predatori, gatti inclusi, che fanno più danni di una poiana o di un gufo) e soprattutto dove si possano alimentare e non morire avvelenati, come spesso sempre più spesso accade, a causa di quella che oggi è sempre più fabbrica del cibo e sempre meno agricoltura. (Nota, la discussione e la probabile definitiva approvazione della aggiornata legge sui parchi e le aree protette non promette, purtoppo, niente di buono).
L'etica? Aldilà del loden e dei bottoni di corno di cervo, l'etica quella vera sta nell'onorare la cosiddetta spoglia, che è spoglia a prescindere dalle dimensioni. E l'onore più grande che le si può fare, alla spoglia, è quello di evocare quell'immagine carducciana ("Gira su' ceppi accesi lo spiedo scoppiettando..."), che richiama una semplicità corale, conviviale, consona a quella dimensione umana, popolare, fraterna, che l'uomo moderno, ormai bionico, sta perdendo inconsapevole. Con tutto il rispetto per il gulash con i mirtilli, sempre più forchetta che etichetta.
Vito Rubini |