M'affaccio, buon ultimo, sul dibattito innescato in prima battuta in Italia da Stefano Montefiori (Corriere della Sera), che raccoglieva dalla Francia una lamento di Jean Pierre Le Goff, autorevole sociologo d'oltralpe, il quale a sua volta in un suo recentissimo saggio,
La fin du village, denunciava la scomparsa della comunità rurale, il villaggio, appunto, intorno al quale si sviluppava fino a pochi anni fa anche in Francia quella che oggi anche da noi ci si impegna ad inquadrare sotto l'appellativo di “cultura rurale”.
Un paradosso, quello di Le Goff, che nel momento in cui sancisce l'avvenuta morte del villaggio – a causa del mutamento del rapporto fra l'uomo-agricoltore e la terra - lo dichiara rinato ma solo come contenitore di una realtà tutt'affatto diversa. Lo fa, Le Goff, attraverso la descrizione e l'analisi della vita quotidiana di una antica collettività della campagna provenzale, la mentalità e lo stile di vita dei suoi abitanti, sottolineandone i mutamenti e le trasformazioni che ha subito dal dopoguerra agli anni duemila. L'urbanizzazione e la modernizzazione – argomenta - non significano solamente la fine di un piccolo mondo, schivo, chiuso all'interno di un confine ristretto. Dalla comunità paesana e dal popolo “antico” la trasformazione verso un nuovo mondo passa per lo sviluppo del consumismo, del tempo libero, del turismo, che a poco a poco erodono le antiche tradizioni campagnole. Per traghettare un sempre più brutale individualismo verso una post modernità problematica: i neorurali.
Così li definisce, una sorta di ceto medio urbano e di categorie “fortunate”, che insomma a poco a poco si sostituiscono alle vecchie classi popolari colpite dalla disoccupazione e dalla fine di quella loro “piccola patria” che fu la collettività rurale. Che subisce, la collettività rurale, con sempre più distacco da una parte le invasioni estive e dall'altra un desolato abbandono negli altri periodi dell'anno. Una specie in via di estinzione, quindi, in permanente conflitto ideologico con queste singole individualità di massa, che in pratica hanno sottratto – col denaro – non solo case e terre, ma una vera e propria cultura del vivere. Con l'aggravante, e qui sta il bello – o il brutto, a seconda di come si osserva il fenomeno – che i nuovi “villeggianti” si stanno appropriando del modello – del brand, si potrebbe dire – riproponendolo in chiave neoconsumistica feste e sagre, tradizioni sociali e culturali, arti e mestieri, che si vanno a riorganizzare in un curioso melange di saccenterie, intrise di ecologismo, idealismo antropologico, moralismo e buoni sentimenti. In stretto rapporto con una natura, concepita come realtà astratta, immobile, non soggetta alle regole della vecchiaia e della morte. Idee, non a caso incarnate, nell'epitome decadente di quel sex-simbol della Provenza, Brigitte Bardot, adirata col tempo che passa, che si circonda di vecchi emblemi provenzali (la casetta fra i pini e altre esteriorità) e di cani e di gatti e di ricordi di un passato in cui aveva tutti gli uomini ai suoi piedi.
Ecco qua. Una bella immagine di come piano piano si riassesteranno in mondi separati, contraddittori, anche le nostre comunità rurali, quando i nipotini di Fulco Pratesi avranno colonizzato – culturalmente - anche l'ultimo brandello di costa, l'ultima malga, l'ultimo borgo, l'ultima “colonica”.
Già oggi, voglio ricordarlo anch'io, in diverse realtà delle nostre campagne, sta esplodendo l'effetto nimby (not in my backyard; non nel mio cortile), reazione psicotica di masse sempre più folte di “naturalisti” metropolitani, che per sfuggire al caos urbano (creato accettato e favorito da loro stessi, non certo da noi, gente di campagna), si rifugiano nella quiete rurale, comprano il rudere, lo ristrutturano, vi passano il week end, lo recintano, lo punteggiano di cartelli di divieto, vi lasciano il gatto, e pretendono che quando loro dormono non si senta un rumore. Nemmeno un gallo che fa il suo mestiere. E se ti provi a fare quello che per secoli, ormai, hai fatto, e cioè fai il contadino, fai il boscaiolo, fai...il cacciatore, fanno un esposto alla procura della repubblica. O, peggio ancora, fondano un'associazione. Ambientalista, animalista, anticaccia, organizzano conferenze invitando passionarie animaliste in mercedes, bolsi etologi in pensione.
Il fenomeno è preoccupante. Più preoccupante – per la sua paventata evoluzione – di tante baruffe fra contrapposte schiere di nembrotti. Che anche quelle, bene non fanno.
Perciò, esaurito lo spillaccherato scampolo di “paesani”, si potrà porre un argine all'alluvione di questa improvvida congerie di neorurali, che di “rurale” hanno davvero poco, solo se riusciremo a far rivivere boschi e piagge coniugando le festose canizze dei nostri segugi, con i trilli argentini dei nostri canori – ahi che pena, non sentir più il francescomio dei fringuelli, il gorgheggio della capinera, lo squittire del prispolone - con l'impegno e l'abnegazione dei nostri selecontrollori. Rurali, anche moderni, si, ma senza neanche un ...neo.
Vito Rubini