Barcollo, ma non mollo sembra dire fra sé il cacciatore migratorista ligure, gente tosta che non si arrenderà mai, vero specchio della terra aspra, ma generosa che l’ha visto nascere.
La geografia della Liguria e della Provincia di Genova in particolare, ha caratteristiche assolutamente uniche nel panorama nazionale.
Noi che ci viviamo godiamo di un clima meraviglioso ed invidiato, di paesaggi mozzafiato, di scorci tanto belli da aver fatto nascere e crescere poeti e cantautori conosciutissimi, ma l’altra faccia della medaglia, non da tutti considerata, è che siamo stretti sempre e comunque tra il mare e i monti.
Genova è una città lunga 30 chilometri e larga 800 metri, con due vie principali di scorrimento e una autostrada sempre super trafficata: se si blocca, si occlude uno di questi passaggi, il blocco, l’infarto che viene creato si ripercuote su tutta la città e si sta fermi per ore e ore.
Il ligure nel corso dei secoli ha dovuto scegliere tra il mare, cioè navigare e pescare o i monti con la sua “campagna in salita” cercando di coltivare e seminare, creando, coi muri di pietra a secco, la pianura là dove non c’era.
La nostra terra è specchio del nostro animo: arcigno, chiuso, orgoglioso, tenace, sempre pronto a grandi slanci, parsimonioso di sentimenti, tosto e duro da abbattere, ma pronto a donare incredibilmente tanto, specie quando meno te lo aspetti.
Il genovese, è vero, lo vedi risparmiare i cinque euro al mercato o non concedersi per sé un piccolo lusso, ma se c’è da spendere tanto e bene per un qualcosa che possa anche solo sembrare un investimento per il futuro è in prima fila e batte tutti.
Il ricco qui da noi gira più spesso in Panda che col Porsche Cayenne, ma gli arredamenti della sua casa, il suo salotto fanno impallidire la Milano e la Roma cosiddetta bene.
Imperativo categorico: mai si deve ostentare, sempre e soltanto mostrare tanta concretezza.
Anche la caccia da noi è così, ostenta poco e dona tantissimo in modo parco, ma leale.
Finchè la civiltà contadina ha resistito nelle nostre campagne, nel nostro entroterra, è esistita anche la caccia alla selvaggina stanziale: pernici rosse, lepri e fagiani veri, scaltri e magri. Scomparse le coltivazioni è scomparsa la stanziale, ha vinto l’incolto ed è scoppiato il boom del cinghiale, che su questi monti vive e regna come il topo nel formaggio.
Dunque per chi vuole andare a caccia e cercare selvaggina non finta, vista la assoluta impossibilità di accedere negli ATC delle regioni vicine, restano solo tre opzioni: il cinghiale che ha sostituito la lepre nelle modalità di caccia, la beccaccia che ha preso il posto della pernice per i cacciatori cinofili e la migratoria di passo.
Qui quest’ultimo tipologia di caccia è sempre stato praticato utilizzando degli appostamenti fissi, assolutamente unici, chiamati “cascinotti”, che possono assomigliare esternamente ai capanni utilizzati nel resto del Nord Italia per il tiro da fermo, ma che invece sono stati concepiti e studiati per il tiro al selvatico al volo. Esternamente sono costruiti in lamiera, in legno, nelle zone esposte anche in muratura, internamente un pianale per almeno due cacciatori e sul retro il cascinotto vero e proprio utilizzato per il riparo, per la stufa, la macchinetta del caffè e una bottiglia di bianco ligure di quello buono.
Il vento, il freddo grecale che taglia la faccia e qualunque tipo di indumento caldo, è il compagno fisso del migratorista ligure, ecco perché la stufa era sempre accesa ed era necessario un piccolo riparo per non morire di freddo specie in febbraio o marzo quando il mix temperatura – vento era davvero micidiale. Un ricordo, che mi porto dentro nel mio personalissimo cassetto della memoria, di questa caccia da freddo, anzi da gelo, erano i cacciatori con baffi e barba gelata, ma soprattutto, di quanto si sparava, specie in febbraio.
Nella giornate buone, i vecchi raccontano che dai paesi si sentiva un continuo tuonare lontano, ma non era un temporale in arrivo, ma la caccia al passo.
Questa caccia che ora viene definita nel moderno venatichese “alla piccola selvaggina migratoria” qui è denominata da tutti “il passaggio”. E’ nata, concepita, cresciuta e morta (nella sua espressione massima cioè febbraio) come caccia a tutto.
Sì avete capito bene a tutto.
Soprattutto tordi, allodole, colombacci, i tappeti di storni, i continui fringuelli, i branchi di pavoncelle, fino alle anatre e alle oche.
Tutto poteva accadere, tutto poteva passare: il grande fascino di questa caccia era la sua estrema varietà ed imprevedibilità.
Io sono uno di quelli, fortunatamente non pochi, che non si rassegna e cerca ancora quel fascino perduto nelle fredde mattine di ottobre o di novembre, ma il periodo di caccia, in questi mesi, non è tutto il giorno, ma soltanto poche ore al mattino, quando facciamo “carniere” si prendono tre tordi…contiamo e ricontiamo i branchi di fringuelli, aspettiamo il sole e il colombaccio che non passa e sorseggiamo insieme il caffè fatto con la vecchia gloriosa stufa.
In lingua genovese ( non dialetto, lingua, è la storia della nostra terra che ce lo ricorda… ) ritorna la vecchia storia di quel giorno di fine novembre di solo e soltanto sasselli o di quel mattino di marzo del ’84 quanto tutti finirono le cartucce e dall’armiere del paese le scatole da 250 erano messe all’asta, di quando un mattino trovammo il Pietro addormentato e mezzo assiderato nel suo sacco a pelo, la posta l’aveva presa alle 19.00 del giorno prima, così come si era preso, senza accorgersene, tre dita di neve addosso durante la notte.
Poi ritorna l’aneddoto del branco infinito di colombacci “che prendeva tutta la gola” o di “quel belin di frosone” che aveva beccato e aperto il dito di Adriano, della lite furiosa per un colombo tra due poste alte o di quando, giuro, visto coi miei occhi, il campione del mondo di tiro al piccione fece con un Cosmi davanti a me bambino, ma non stupido, sette tordi con sette cartucce. Credo di avere ancora adesso la stessa faccia allibita quando ci ripenso, ma se anche voi aveste potuto vedere con che naturalezza, velocità e “facilità” fece quel numero, credereste a me che ho visto e vissuto quell’episodio.
Ritornando dopo questo volo pindarico alla mia caccia al passaggio assicuro soprattutto ed innanzitutto chi non ci ama, chi lotta per cercare di migliorare la caccia nel suo insieme, chi combatte per riottenere le deroghe al fringuello e allo storno che ( e badate bene che non esagero !) passano sempre e comunque dai nostri monti in milioni di esemplari e che quindi possono essere oggetti, senza pregiudicare nulla, di un prelievo mirato, chi legge e rispetta tutte le forme di caccia anche e soprattutto quelle che non pratica abitualmente, vi assicuro tutti dicevo, che resisteremo lassù sul nostro valico.
Resisteremo perché siamo belli, matti e inguaribili.
Resisteremo anche se ci concedessero una giornata di caccia mensile con monocolpo del 36 alla modica cifra di 1000 euro di licenza.
Resisteremo perché volevano ucciderci con le loro regole sempre più assurde e invece hanno costruito un esercito di 750.000 immortali: hanno lasciato il meglio di noi, hanno costruito il cacciatore consapevole, hanno plasmato la nuova figura del cacciatore ambientalista, di chi per davvero conosce il suo ambiente lo vive, lo difende, lo ama, lo utilizza.
E se un giorno il cacciatore si accorgerà di non essere un appassionato di nicchia, di non poter essere paragonato agli oramai rarissimi collezionisti di francobolli, ma di essere una potenza economica e politica, una lobby potente con numeri importanti ed interessi altissimi nella economia del Paese, con dietro di se industrie ed indotto, con giornali che vendono, con una televisione satellitare che ha raggiunto nello stupore silenzioso generale i 100.000 abbonamenti, se quel giorno e quella consapevolezza arriverà, il disco comincerà a girare dall’altra parte e allora potremo davvero vederne delle belle.
Se e soltanto se ci sarà da parte di tutti noi la volontà di lottare uniti.
Per ora invece le nostre associazioni, che dovrebbero in teoria fare fronte comune sempre e comunque per difendere in ogni modo la caccia e i cacciatori, si beccano tra loro come i polli di Renzo Tramaglino dei Promessi Sposi, invece di promuoversi all’esterno per migliorare la nostra immagine, si rivolgono sempre e solo all’interno del nostro mondo per difendere l’orticello.
Così noi “cacciatori semplici” dell’esercito della caccia che non vuole morire ( e non morirà mai statene certi) assistiamo al balletto dei nuovi comunicati, che vengono letti sempre dalle stesse persone, a cui si risponde con altra carta sempre all’interno del nostro mondo e mai proiettati fuori, mai un qualcosa di nuovo per far notare alla cosiddetta opinione pubblica che siamo tanti e soprattutto siamo diversi da come ci descrivono, mai una iniziativa clamorosa che faccia parlare di noi.
La notizia è l’uomo che morde il cane e non viceversa, il viceversa non interessa a nessuno.
Infatti all’esterno nessuno ci considera se non per assestarci ogni tanto qualche piccola grande bastonata in testa, per toglierci ancora qualcosa, lentamente, inesorabilmente.
Chi ha voglia per davvero di reagire e di tirare fuori le palle?
Io ho cominciato nel mio piccolo e nel vetro della mia automobile ho attaccato un adesivo con una scritta cubitale “IO AMO LA CACCIA e ne sono orgoglioso”.
E’ poco lo so, ma intanto io ho iniziato.
Le grandi marce, diceva qualcuno, cominciano con un piccolo passo.
Che direbbero, che penserebbero, che scriverebbero le menti belli anticaccia ed animaliste così di moda di questi tempi, se in 749.999 mi seguiste?
E poi magari da una piccola iniziativa come questa, riuscire a creare qualcosa di più grande?
I migratoristi liguri, belli, matti e inguaribili ci sono e sono pronti.
Ad maiora.