Tra le tante sconcertate reazioni all'indomani della tragedia norvegese per mano di Anders Behring Breivik, si è inserita anche l'annosa polemica sulle armi e sulla loro accessibilità da parte dei cittadini. Com'è possibile che uno che vuole passare alla storia come “il più grande mostro dopo la seconda guerra mondiale” possa sparare su una folla inerme e uccidere decine di persone con un'arma legalmente detenuta? Si perchè, nella sua folle lucidità l'attentatore filo-nazista ha dovuto fingersi sano di mente e operare nel rispetto delle leggi per ottenere le armi utilizzate poi per uccidere a sangue freddo gli ottanta ragazzi riuniti sull'isola di Utoya . E' lui stesso a confessarlo nel memoriale pubblicato dopo la tragedia, in cui, con un certo sadismo, rivela al mondo di come fosse stato tentato di scrivere “per giustiziare marxisti culturali e traditori multiculturali” nella domanda presentata alle autorità per il possesso del proprio fucile, anziché “per la caccia al cervo”, come poi ha fatto, ingannando tutti sulla sua buona fede.
Certamente quello che poi è realmente accaduto va ben oltre la nostra immaginazione e non può che lasciarci annichiliti e sconcertati. Non c'è una risposta plausibile alla domanda che abbiamo posto sopra e che ognuno di noi in cuor suo si è fatto, se non ammettere che certe cose sfuggono al nostro controllo, pur meticoloso che sia.
Come rimane senza una spiegazione, tornando ad una simile folle lucidità omicida, il fatto che due attentatori di Al Qaida (o presunti tali) abbiano potuto prendere regolare brevetto in America (ben più difficile che ottenere una banale licenza di caccia) per poi schiantarsi durante un volo di linea contro le Twin tower. Chi avrebbe potuto immaginare che un aereo potesse trasformarsi in una bomba volante in periodo di pace? Lo avevamo visto solo nei documentari in bianco e nero della seconda guerra mondiale, quando l'abitudine al martirio kamikaze diventò una delle armi più micidiali a disposizione del Giappone, ma pensavamo fosse acqua passata. Quelle erano razionali, per quanto tragiche, strategie di guerra, possibili grazie ad un controllo totale dei soldati - e della loro mente - pronti a dare la propria vita per dei principi patriottici. Questa è pura maniacale follia di un uomo che crede di aver iniziato una guerra contro il multiculturalismo.
Per quanti controlli si possano fare, il pericolo che armi non convenzionali siano utilizzate per compiere omicidi e attentati terroristici è sempre in agguato. Nessuno avrebbe potuto prevedere che gli enormi quantitativi di fertilizzanti acquistati da Breivik (questa volta fingendosi imprenditore agricolo) servissero alla produzione di un ordigno rudimentale che ha gettato nel panico un'intera nazione e ucciso una decina di persone in una delle capitali più evolute dell'Europa. Il concetto di “arma” in questo modo si allarga all'inverosimile e diventa così davvero difficile sottoporre ogni tipo di sostanza a rigorosi controlli di vendita e acquisto.
Venendo a noi, ed è il motivo per cui ne parliamo, qualcuno ha provato a dare la colpa alla caccia. Come Beppe Severgnini che dopo la tragedia, dalle pagine del Corriere della Sera ha voluto far notare che nella pacifica Norvegia esistono qualcosa come 439 mila cacciatori (ovvero uno ogni dieci abitanti, in totale nemmeno 5 milioni) e che le severe norme sulle armi evidentemente non sono bastate a fermare quella follia. Vero. Ma cosa e chi avrebbe potuto impedire ad una mente tanto diabolica di procurarsi illegalmente le stesse armi o di piazzare decine di bombe al fertilizzante in diversi punti della città?
Semmai il computo delle armi in possesso dei cacciatori in quel paese, ma gli illustri commentatori se ne guardano bene da farlo notare, ci restituisce un quadro di gran lunga tranquillizzante sulla sicurezza della caccia: una delle più alte percentuali di armi detenute per numero di abitanti a fronte di uno dei più bassi tassi criminali mai registrati, tanto che in quello stato le pene massime non superano i 21 anni di reclusione. In Norvegia, uno dei paesi più pacifici d'Europa, dove anche principi e governanti non hanno problemi a dichiarare il loro orgoglio di cacciatori, la stagione venatoria è molto più lunga della nostra e i ragazzi possono avvicinarsi alla licenza già dai 14 anni. La caccia è aperta anche in agosto, quando campagne e boschi si riempiono di turisti (il 65 % dei norvegesi rimane nel proprio paese in vacanza e preferisce il turismo naturalistico), ma nessuno si sogna di creare inutili allarmismi sulla pericolosità delle doppiette, cavalcando fantasmi e paure per trarne vantaggio come fanno invece da noi anche certe associazioni sedicenti ambientaliste, talvolta anche gonfiando i numeri sulle vittime a caccia e dimenticando di far presente che quelle vittime sono quasi sempre tra soli cacciatori (Quest'anno, fra le sempre più rade vittime della caccia, solo una – causa di un tragico e deprecabile incidente – era del tutto estraneo all'attività venatoria).
Perché, allora, da noi, questa gratuita acredine nei confronti della caccia? Che sia una questione di civiltà? Che dipenda dall'italico andazzo dello scaricabarile, per cui coloro che si professano ambientalisti e amici della natura e degli animali, sentendosi corresponsabili dello scempio che quotidianamente si consuma sul nostro territorio, cercano di sviare l'attenzione su un comodo capro espiatorio? Ecco allora che il semplice, a volte semplicotto, cacciatorello nostrano, anello più debole della catena, senza santi in paradiso, diventa la causa di tutte le nequizie perpetrate ai danni della nostra bella Italia.
Ma non è così. Noi lo sappiamo bene. E il civile, pacifico, democratico popolo di Norvegia, che ha la caccia nel cuore, anche nell'esprimere il più grande sconforto per l'immane tragedia che gli è capitata fra capo e collo, è li a testimoniarlo.
Cinzia Funcis