Tutti noi conosciamo Carlo Petrini, il fondatore di Slow Food, il guru del recupero del bel tempo andato, non quello della nostalgia, delle chiacchiere a vuoto, senza fare. No. Quello del fare, possibilmente senza chiacchierare. L'uomo che, partendo da Brà, in Piemonte, sulla civiltà rurale ha costruito un impero, tanto da meritare già qualche anno fa una copertina sul più importante magazine del mondo, Time. L'uomo che ogni due anni, a Torino, è il protagonista del Salone del Gusto. E ogni altri due anni, in alternativa, celebra a Brà l'apoteosi dei formaggi della tradizione. L'uomo che ha fondato, ed è qui che vogliamo arrivare, la più grande rete mondiale delle culture rurali. Terra Madre, che raccoglie a Torino la voce e le esperienze di migliaia di contadini provenienti dai più sperduti e dimenticati anfratti del pianeta. E' a lui che bisogna chiedere, è a lui che ci dobbiamo riferire, se vogliamo ragionare di tutela della nostrana cultura rurale.
Non è, diciamolo subito, persona a cui guardare con sospetto. E' persona schietta, che dice pane al pane e vino al vino. Persona che, nel ricordare le origini della sua creatura, Slow Food, non esita a ricordare che l'idea gli venne ormai alcuni decenni fa, ospite degli amici (compagni?) di Montalcino (Siena), che l'avevano invitato per la Sagra del Tordo.. Sagra che allora si celebrava con decine di schidionate di tordi che arrostivano rigirandosi su rossi tappeti di brace. Una festa di popolo. Un popolo contadino, che celebrava i propri riti alla maniera delle antiche feste di Bacco. Vino buono (quale?, se non il Brunello), allegre tavolate, trionfi dei prodotti della campagna, canti, balli, giochi, richiami alla vita agreste. E in campagna, allora come in antico (ma anche ora), la caccia, la cacciagione, la facevano da padrone.
Ecco, questo è l'uomo. E' colui che ha fondato l'Università di Pollenzo, dove con mirabile esempio, ai mille valori e sapori della tradizione si coniugano antiche sapienze, scienza applicata, ricerca, etica, mercato. Perché se vogliamo che le culture cosiddette rurali abbiano un presente e possibilmente un futuro, le dobbiamo collegare con le sensibilità della gente di oggi ma anche col mercato. E il mercato, oggi, è spietato, non guarda alle ciance, vuole vedere i fatti.
Bene. Ma non stiamo a cantare le lodi del Carlino “mondiale”, non basterebbe un giorno per elencare tutti i suoi meriti nella difesa soprattutto della nostra cultura rurale. Veniamo a noi.
Di recente, il Carlinpetrini è uscito con una notarella (“Terra, Terra!”) su “La Repubblica”, quotidiano non certamente vicino ai cacciatori, per richiamare l'attenzione dei lettori e dell'opinione pubblica in generale proprio sul concetto di cultura rurale. O, meglio, per sfatare un consolidato luogo comune, che fa del mondo agricolo un ricettacolo di arretratezza, in opposizione al paradigma che fa dell'industria e del profitto un credo, e del consumo l'unico metro per giudicare vivacità e vitalità di una società e delle persone che la compongono. Una visione che ci ha sprofondato, dice lui, in una crisi economica e climatica, ecologica e politica, finanziaria e umana. Rispetto alla quale, precisa, è necessario un cambio “che deve partire dal settore agricolo”. Abbandonando l'idea che si possa produrre cibo senza contadini, “senza umanità nelle campagne”.
La rivoluzione, insiste deciso, potrà partire da quando capiremo che l'agricoltura è un settore strategico, e se riuscirà a portare i giovani nelle campagne, “che si possano prendere cura del nostro cibo, del nostro verde, dei nostri paesaggi, della nostra biodiversità”. Facendoli vivere, i giovani, in campagna, serenamente, con i servizi giusti (banda larga, opportunità sociali, botteghe, luoghi di svago). Auspica insomma, a difesa della buona cultura rurale, fatta più di contadini che di “imprenditori agricoli” (ovvero “industriali della campagna”), che questa agricoltura giovane sia in grado di investire anche in risorse energetiche rinnovabili, rilanciare varietà colturali e razze autoctone, far da traino per un rinnovato rispetto per l'ecosistema e per tutto il “bello” del nostro Paese, attraverso la ricerca, nelle nostre università, collegando le vecchie e le nuove tecnologie, senza troppe macchine, senza OGM. “Si tratta di ricostruire la nostra agricoltura – conclude - che sa essere varia, presente nei territori, custodita dai cittadini come l'orgoglio e la salvezza del nostro Paese”.
E fin qui, ci siamo. Anche noi riteniamo che questa sia la strada su cui i nostri agricoltori, i nostri amministratori, i nostri rappresentanti si debbano impegnare. Oggi, non domani. Il messaggio è chiaro. Il nostro Paese non dispone di grandi estensioni territoriali. Non può pensare quindi di presentarsi concorrenziale sul piano dei numeri, della quantità. Nel contempo, dovrà crescere una nuova generazione di “contadini”, più colta, più sensibile, più preparata, meno attaccata al profitto fine a se stesso, in grado di coniugare pratiche frutto delle saggezze millenarie con gli ultimi ritrovati della ricerca e della tecnologia, che salvaguardi l'ambiente in sé, non solo per l'immediato (impoverendo e inquinando i suoli), ma anche per le future generazioni; non solo per raccoglierne i prodotti e venderli, ma per mantenere fruibile un patrimonio ambientale (territorio, paesaggio), nell'interesse non solo dei consumatori ma dei consumatori/cittadini. Proprio in questo periodo, stanno uscendo notizie che mettono in evidenza i danni di un'agricoltura (e di una zootecnia) esasperata. Quello che serve, è invece una cultura della ruralità, che si impegni a portare in campagna le nuove generazioni di cittadini (sottraendoli alla “cultura metropolitana” ) e che porti in città una “cultura rurale” non più fatta di luoghi comuni, che collegano ingannevolmente “il bel tempo andato” (ma era poi davvero un “bel tempo”, o era intriso soprattutto di di fatica e di miseria?) con prodotti alimentari sfornati invece da una vera e propria disumanizzata catena di montaggio. Allo stesso modo, sarebbe opportuno “aggiornare” gli argomenti di un “pensiero” ambientalista/animalista, quello nostrano, che ormai arranca poggiando i piedi malfermi su vecchi slogan, che funzionano – purtroppo - ormai quasi esclusivamente nei confronti dell'anello più debole della catena: la caccia.
E la caccia, appunto, come la possiamo collegare a questo nuovo modo, rivoluzionario secondo Petrini, di intendere il rapporto con la campagna? Le polemiche di questi giorni – aspre, che sicuramente non giovano al nostro mondo, aldilà dei paventati complotti da parte di fantomatici burattinai, su cui è meglio sorvolare per carità di patria - fanno registrare un ulteriore intervento (ancora su “La Repubblica”) dell'uomo di Brà, il quale, pur non risparmiando spunti critici nei confronti della caccia odierna, tiene a ricordare che “atavismo e passatismo ci proiettano fuori dal mondo”. La soluzione, ripete, sta nel giusto equilibrio fra i diversi modi di vedere il problema. In sostanza, anche sulle auspicate nuove regole (volendo interpretare: emendamento alla Comunitaria e sostanza della proposta Orsi) non c'è da scandalizzarsi. L'importante è che il problema venga affrontato con saggezza, tenendo conto dei valori culturali e di un patrimonio naturale a cui tutti teniamo, primi fra tutti noi cacciatori.
Senza dimenticare però che si vive nell'oggi, dove scienza, ricerca e tecnologia ci possono aiutare a capire e a interpretare la realtà, per fare in modo che – consapevoli del doppio ruolo, quello di cacciatori e di cittadini – si faccia in modo che tutto questo bendiddio possa essere goduto armonicamente, oggi, ma anche domani e dopodomani. “Una caccia, insomma, dicendola con Petrini, che rientra nei compiti di una moderna gestione del territorio”. Una caccia che, come la moderna, nostrana, “cultura” di cacciatori e cittadini, sappia rendersi conto che noi abbiamo bisogno di “vivere” nel mondo che ci circonda e ci nutre (e consente a tutti coloro che hanno questa nostra antica passione di ricongiungersi alla “grande madre”), ma che il mondo, e le tante creature meravigliose che ancora lo popolano, hanno pure un disperato bisogno di noi.
Francesco Luchi