Non si vuole insultare nessuno. L'intenzione, invece, è quella di riflettere insieme sulle cause profonde di un conflitto, direi quasi tutto italiano, che vede da decenni in forte competizione il mondo dell'ambientalismo nostrano con ampie fette del resto della società, su posizioni vetero-protezionistiche e spesso fasulle. I porchi a cui si allude sono genericamente quei quarti di buona, ottima carne che popola le nostre amene convalli. Il cinghiale, soprattutto, appunto, ma anche e ancora di più se valutato in prospettiva, quel rigoglioso patrimonio fatto di cervi, daini, caprioli, mufloni, camosci (e stambecchi). Tanta roba, se solo si prova a dargli una identità ponderale.
Basta affacciarsi ai resoconti (per difetto) degli ATC e delle squadre di cinghialai, per capire che quando gli agricoltori sbraitano, quando gli animalisti/ambientalisti si strappano le vesti, le ragioni non sono protestatarie e tantomeno etiche, ma strettamente mercantili. Teoricamente, come testimoniato ormai da anni nei rapporti più affidabili, l'abbondanza (a dismisura secondo qualcuno) di ungulati dipende dai limiti della 157 e dai divieti (sempre più teorici) della legge sui parchi. Legge, la 394, che il Senato (di cui si chiede da tempo la rottamazione) ha da poco varato, sembrerebbe all'insaputa del colto e dell'inclita, visto che gli ambientalisti protestano e i cacciatori "cadono dalla nubi" a proposito delle paventate ulteriori restrizioni.
Insomma, analizzando la filigrana di questa riforma, che dovrà passare alla Camera e se maiora NON premunt se ne parlerà forse entro l'anno, si capisce che qua si continua a litigarsi sul... diritto di prelievo. Non solo fra cacciatori (cinghialai e selettori, con la scusa dell'etica che l'Ispra incarta con una luccicante quanto pencolante confezione scientifica) e fra cacciatori e agricoltori (che dicono danno ma intendono trofei e prosciutti da vendere in agriturismo), ma anche fra cacciatori/agricoltori e apparati dei parchi (organizzati soprattutto in Federparchi - peraltro esclusa all'ultimo momento dalla competenza diretta - e supportati sotto sotto da almeno una parte degli ambientalisti) che intendono portare allo scoperto quelle attività di cattura, abbattimento e commercializzazione che da tempo effettuano più o meno in sordina. Sostenendo oggi, sempre col paravento dell'etica, o della più oculata gestione, che la competenza dei parchi si dovrebbe allargare anche alle aree contigue, e pure alle SIC e alle ZPS (te l'immagini cosa combinerebbero??!).
Infatti, per riassumere, è noto almeno agli addetti che nei parchi è già possibile rimpinguare le esangui casse (che adesso, secondo il nuovo corso, in un modo o nell'altro si dovrebbero far carico delle prebende da erogare a presidente - da scegliere nella casta degli ambientalisti di lungo corso - e consiglieri, a suo tempo escluse dal Governo Monti) con gli introiti derivanti dalla vendita della selvaggina in esubero (non è che vendono vipere, o faine, o cornacchie, ma cinghiali, daini...) a peso morto (abbattuta) o a peso vivo (che peraltro cambia presto condizione, visto che nessuno sa più cosa farsene di daini o cinghiali che pascolano in giardino o nell'orto).
L'abbattimento (all'austrungarica, mi raccomando) avviene per mano dei guardacaccia o di personale appositamente abilitato (perifrasi ipocritamente inventata per non far sapere che potrebbero essere anche cacciatori, peraltro già evocati nelle norme correnti). I più dotati di senso degli affari, fra gli amministratori e i dirigenti dei parchi, già da tempo (magari sotto...copertura) promuovono un'etichetta, sicuramente "bio" da usare per reclamizzare la bontà di quelle carni. Verità incontrovertibile, ben nota ai cacciatori e ai buongustai ma anche agli agricoltori (in buona parte cacciatori o ex-cacciatori), ma che al di fuori delle tabelle "no-kill" trova un'opposizione feroce da parte delle frotte di animalisti, ancora oggi finanziate direttamente (contributi) o indirettamente (5x1000) dallo stato.
Il palese dissesto bio-faunistico-ambientale, dove troppi - cinghiali, cervi, caprioli - dove pochi o niente - uccelli di larga che frequentano lande con agricoltura industrializzata - ad ormai 25 anni di applicazione denunciano il totale fallimento della legge 394 sui parchi e le aree protette. Le paventate modifiche trasmesse dal Senato alla Camera per la definitiva revisione nella sostanza non cambiano niente, se non per le vessazioni ulteriori nei confronti dei poveri untorelli dei cacciatori. L'appello sullo stop alla veloce e violenta perdita di suoli agricoli lo dimostra. Come, analogamente, e di conseguenza, è sotto gli occhi di tutti il fallimento della Direttiva Uccelli, in Italia soprattutto, che mentre imponeva ai governi (e ai referenti primari, ovvero gli ambientalisti) di vigilare sulla integrità degli habitat, ha fatto di tutto perchè ci si accanisse esclusivamente contro la caccia.
Una morale, difficilmente contestabile. Con una premessa: con un territorio teoricamente protetto ma sicuramente escluso alla caccia almeno per ill 30%, non ci può essere specie selvatica a rischio per mano dei cacciatori. Le campagne antibracconaggio sono in gran parte un tentativo maldestro per nascondere la verità. Il che non significa che non si debba insistere per migliorare la sensibilità di parte - a mio parere sempre più insignificante, marginale - di certi personaggi eccessivamente ruspanti. La morale, eccola: archiviata la caccia come causa (ma sarà dura recuperare nei confronti di un'opinione pubblica sempre più condizionata dalla cultura metropolitana: la popolazione urbana ha ormai superato quella del contado), riconosciuto che i principi su cui si basano le nostrane politiche ambientali sono inadeguati, vengono in mente alcune considerazioni che già si affacciarono all'epoca del dibattito preliminare all'approvazione della 394. Ovvero, anche alla luce dell'esagerato rigore della legge sulla caccia (157/92 e suoi insulsi aggiornamenti): per l'attività venatoria non sono necessarie ulteriori vessazioni, mentre non sarebbe male riflettere su soluzioni alternative, come una diversa e complessiva tutela di tutto il territorio, i cui habitat (direi meglio: paesaggi, cioè natura ma soprattutto cultura dei territori) altrimenti, con la foglia di fico dei parchi e delle aree protette, rischiano la completa ablazione.
Un monito, infine, che è una inquietante domanda: ma le nostre associazioni venatorie, che non mancano occasione per contendersi un tesserato e accapigliarsi per una coscia di cervo, se ne sono accorte che questa approvanda legge sui parchi ci sta massacrando ulteriormente? Perchè?, visto che - stando a quanto si paventa almeno sui media - questa minaccia di danni all'agricoltura e al patrimonio naturale da parte di orde di ungulati e specie opportuniste (storni, piccioni, corvidi, istrici, tassi, per non parlar delle nutrie) dipende in gran parte dalle aree protette (sicuro rifugio di tanti cornuti e setoloni), perchè non si pretende che in una legge riformanda (questa del Senato no, per carità, va contestata!) sia prevista anche la presenza di rappresentanti dei cacciatori nei consigli di amministrazione dei parchi e delle aree protette? In fin dei conti, se non ci pensiamo noi a ristabilire gli equilibri, con l'aria che tira, altro che danni!
Chi si professa sincero amico della natura dell'ambiente e della caccia correttamente intesa ci faccia un pensierino...
Vito Rubini
Post Scriptum: la nomina in autorevoli consessi pararurali di noti personaggi dell'italico ambientalismo sconfitto dai fatti e dalla storia, appare come la più evidente contraddizione, che anche la mente più fervida non avrebbe potuto immaginare. Suscita sorpesa, ma anche qualche grassa risata. Se gli daranno retta, come faranno gli agricoltori a eliminare il danno (occupazione delle campagne da parte degli ungulati)? Come faranno, in alternativa, a trasformare questo danno in risorsa (prosciutti) come incoffessabilmente vorrebbero fare?