Quando non c'erano i social, quando non c'era la televisione, quando si viveva in una dimensione più... umana, tornati dalla caccia ci si ritrovava in armeria, dal barbiere, al circolo per fare due chiacchiere, raccontare le nostre storie, scherzare sulle padelle e su mirabolanti carnieri, fucili magici, cartucce miracolose. Stare insieme, bere un bicchierotto fra amici. Alla sera, il fascino della fiamma ci raccoglieva fra compagni intorno al camino, a veglia. Confidenze, consigli, progetti per l'indomani di caccia.
Una dimensione tranquilla, dove anche questa nostra passione aveva un sapore più genuino.
Il progresso, la società globale, la velocità, già magnificata dalle avanguardie letterarie del novecento, i futuristi, ci hanno portato tanti vantaggi, ma anche tante ansie, tante incertezze. Una vita da centravanti per tutti, non da mediano, sempre più androidi, senza che nemmeno ce ne accorgiamo. Fiduciosi nelle magnifiche sorti e progressive.
Poi tutto d'un tratto arriva il Covid-19, e si ripiomba in una realtà bidimensionale obbligata, costretti a riflettere su cosa sarà per noi il domani. E per i nostri figli, ai quali se siamo buoni padri di famiglia dovremo anche pensare nel prefigurare il futuro.
Nel nostro piccolo, da cacciatori, in queste giornate d'inedia forzata, viene "naturale" argomentare su ciò che ci sta a cuore. L'ambiente, la selvaggina. Già negli ultimi cinquant'anni tutto era cambiato. Le forme d'agricoltura (e di allevamento), il rapporto fra uomo (sempre più metropolitano) e natura. Il consumo (direi lo spreco) del territorio da una parte, l'abbandono di quei luoghi considerati non più redditizi dall'altra (il nostro Appennino, per esempio), la perdita di quella infinita varietà di specie animali e vegetali, la cosiddetta biodiversità che un tempo ignorantemente definivamo "nicchia biologica" o "catena alimentare", a vantaggio di azzardate specializzazioni che in molti casi hanno stravolto i nostri magnifici paesaggi.
Da quella frugalità alimentare dei nostri nonni, resa ricca da qualche padellata di tordi o fringuelli, uno stufato di lepre o di cinghiale, un cosciotto di capriolo o di camoscio (i cervi erano soprattutto appannaggio delle corti), siamo passati a trionfi quotidiani sulla tavola, un bendiddio per tutti, e appunto tutti i giorni. Come alla tavola del re. Pensate che solo in Italia si allevano 2,5 milioni di bovini, 11 milioni di suini, 13 milioni di ovini e caprini, 50 milioni di galline ovaiole, 500-600 milioni di pollame, 100 milioni di conigli.
Non parliamo poi del mondo, dove la produzione viene più che decuplicata: 1,3 miliardi di bovini, 1 miliardo di suini, 2,7 miliardi di ovini e caprini, 12 miliardi di pollame e conigli. Tutta roba buona, per carità, almeno la nostra italiana, certificata e garantita all'origine. Ma al cospetto della quale, il nostro oggetto del desiderio, fagiani, colombacci, tordi, lepri, cinghiali, caprioli, cervi e camosci sono quisquilie, fesserie. Anche se, malgrado tutto lo sperpero di ambiente, ancora abbondanti.
Eppure: eppure, in tempi di Coronavirus ci si accorge che sono importanti. Che questo cambiamento repentino dei rapporti fra città e campagna, fra animali selvatici e territorio, diventa esageratamente evidente. Giorni fa ho visto un video dove un cinghiale se la dava a gambe fra gli scaffali di un supermercato. Non si accontentano più di passeggiare per le strade di Roma, dove peraltro la fanno da tempo da padroni gabbiani e storni, ma anche volpi, o di Genova, ma si filmano lupi nel centro di Sesto Fiorentino, beccacce a Milano, caprioli che ingaggiano lotte amorose per le strade statali, volpi che entrano per le case (i pollai sono ormai da mettere sotto tutela come riserve indiane), caprioli nei giardini. Decenni fa, all'inizio di questa rivoluzione copernicana, un ambientalista di grido (sedicente cacciatore pentito) fece la sua fortuna letteraria descrivendo i "Clandestini in città". Come se fosse una conquista. Ci si rifugiano, dicevano, perchè sfuggono dalle insidie dei cacciatori. Fandonie, ovviamente. I fenomeni della natura, che comprende anche l'uomo e i suoi manufatti, sono ben più complessi e a volte imperscrutabili. Di solito non basta il sentenziare di certi scienziati. Ci vuole saggezza, conoscenza vissuta, lungimiranza. Ma in un paese di 60 milioni di CT della nazionale, oggi improvvisamente reinventatisi virologi a tutto tondo, cosa non c'è di più...naturale.
Di sicuro, questo repentino cambiamento delle nostre abitudini, forzate, chissà per quanto ancora, pone seri interrogativi. Per gli agricoltori, non c'è dubbio, per le comunità, per i nostri commissari tecnici, quelli veri, intendo, cioè i nostri governanti. Sarebbe umiliante e ingeneroso se ci si limitasse a prendere atto della cosa, e magari appioppare ancora una volta le responsabilità ai soliti poveri tapini. Cioè a noi cacciatori. Con le chimere urlanti che già si stanno organizzando (in Senato la solita Brambilla è stata nominata a gran voce rappresentante della squadra animalista de' noantri, cioè di quegli insulsi salotti politicamente corretti, popolati da Dudù e Dudine) per recuperare quel minimo di credibilità ormai perso, tragicamente, nella ricerca spasmodica di un vaccino (etimologicamente: antidoto estratto da una vacca) per salvare questo nostro pianeta ammorbato.
No, non sia mai! Ma anche noi ci dovremo dar da fare. Le nostre aspettative di cacciatori oggi più che mai coincidono con gli interessi della gente, con gli obbiettivi che si dovrà prefigurare il nostro paese nel ripensare la nostra vita e il nostro convivere sociale. Leggo che qualcuno, i più accorti di noi, già se ne sta adoperando. Con l'aiuto di quella scienza misurata sul campo. Se ci vogliamo bene, se teniamo alla caccia, occorre convergere sul progetto. Stare insieme. Un'impresa ardua, ma ce la dobbiamo fare.
Vito Rubini