Vien da ridere, un riso amaro purtoppo, quando si pensa che certo brambillismo vorrebbe convertire il gatto, o il cane, al ...veganesimo. Ormai, con gli scaffali dei supermercati pieni di mangimi dai nomi di fantasia, per infinocchiare tanto per dire non i gatti o i cani o i criceti, ma i loro "padroni", che pretendono spesso di sostituire questo appellativo con quello di "mamma" o "babbo", anche le persone più equilibrate hanno ormai perso il lume dell'intelletto. Non parliamo poi di quelli che portano a spasso l'amato pet col cappottino o con l'impermeabilino. O infiocchettato come tante ritepavone o sandremilo a quattrozampe. A quando un po' di lifting tipo cavalieremasKarato, o una botta di silicone sulle labbra di Fuffi?
Sembra siano passati anni luce da quando si selezionavano le razze degli animali domestici e da lavoro, per associarli - appunto - alla gestione della casa, del cortile e delle proprie attività, casalinghe ed extracasalinghe. Basterebbe scorrere i Libri delle Origini (delle razze) per farsi un'idea di quanta saggezza c'era in chi doveva sovrintendere a queste selezioni e, soprattutto, in chi questi soggetti dalle differenti specificità li doveva u-ti-li-zza-re. Perchè era per utilità che fin dai primordi dell'umanità certe specie di animali, selvatici, si associarono all'uomo. Per convenienza. Anche loro. Una casa, un tetto, un pasto più o meno sicuro, pur se variegato, non erano poca cosa per chi altrimenti avrebbe dovuto vivere alla busca, da selvaggio. Fu così che il cane si accasò, facendo la guardia, l'aiuto pastore, il mandriano, il cacciatore nelle sue molteplici articolazioni: da seguita, da cerca, da ferma, da recupero, da sangue. Ma anche in sostituzione dei gatti, se si pensa a certi cagnetti mignon della tradizione inglese, i terrier per esempio. E se si allunga l'occhio verso altri continenti, si trovano altre sorprese. Chi non ricorda quella Rikki-Tikki-Tavi di Kipling, la mangusta che si oppose (per mestiere, vien da supporre) strenuamente al temibile cobra?
Il guaio è che gran parte degli "utenti" di oggi non hanno nemmeno la benchè minima cognizione della reale essenza di certe "credenze", e di altrettanti proverbi, patrimonio della saggezza popolare. Il gatto, per esempio, specie di cui si fa un gran parlare, pur ronfando a giornate sulla "sua personale" poltrona del salotto, non ha per niente dimenticato la sua essenza eminentemente selvaggia. Per esempio: Una gatta può andare in convento, ma resta sempre una gatta, dicono in Romania. Conosco un gatto, grasso e pasciuto, che a rischio di fastidiose indigestioni non rifugge dal cibarsi di gechi, o di lucertole. Un'altra gatta di mia conoscenza, anche negli ultimi anni della sua lughissima permanenza in salotto, lasciava serpentelli sullo zerbino davanti l'uscio, forse per testimoniare riconoscenza nei confronti di chi l'aveva sfamato e coccolato per una vita. "Un gatto è un gatto", dicono in Inghilterra e, a riprova, provate a seguirlo durante le sue scorribande fuori casa, anche in città. Non rinuncerà mai a a dare l'assalto a un passerotto o a un merlo, anche se sazio fino alle orecchie.
E dunque, dov'è andata a finire tanta saggezza popolare? Perchè non si riesce più a dare un senso alle cose, siano esse animate o inanimate? Perchè, per "combattere" le mosche, si abusa di insetticidi, quando basterebbe (un tempo bastava) mettere un po' di gerani alle finestre? Perchè nessuno si ricorda più perchè eliminare un ragno portava male, mentre a ben ragionarci si può pensare che la sua presenza in casa assolvesse allo stesso ruolo della... carta moschicida?
Mah! Il fatto è che il mondo è cambiato. Prima avevamo tutti esperienze con l'ambiente rurale. Che non era genericamente "naturale". Era, più propriamente, un anello di congiunzione fra uomo (civile) e natura (ostile). Il cavallo, il bove tiravano l'aratro o la carretta, l'asino e il mulo portavano carichi pesanti, il cane faceva la guardia, sovraintendeva fedelmente con l'uomo alla gestione dei lavori, almeno finchè mangiava. Quando aveva fame, invece, ritornava lupo. Il gatto, che è predatore nato, oggi come ieri, dà sfogo alla sua natura senza contestualizzare. In casa è lotta senza quartiere contro il popolo sorcino, che ancora oggi (non ce ne vogliano gli amici di Renato Zero) incute terrore soprattutto nel subliminale femminino. Fuori di casa, girovago com'è, fa strage di piccoli animaletti, dando la preferenza ai tanti Tittì che prolificano indisturbati, abbondanti se non avvelenati dalla modernità, agricola come urbana.
C'è da preoccuparsene? Certamente no, se siamo ancora capaci di usare il cervello. Il nostro. Ma, se il troppo stroppia, che sia cinghiale, o nutria, scoiattolo grigio, zanzara tigre, cimice asiatica, daino, pesce gatto, minilepre, storno, vespa, volpe o formica (sono centinaia le specie aliene o fuori controllo), anche il gatto va riportato a una dimensione ra-gio-ne-vo-le. Come abbiamo sempre fatto per secoli, di generazione in generazione, quando il buongoverno delle cose, pubbliche e private, non dipendeva da un twitt (cinguettio) o da un selfie. C'è qualcuno ancora in grado di capirlo?
Vito Rubini