Giuseppe Verdi andava a caccia. Giacomo Puccini andava a caccia. Il principe del Gattopardo andava a caccia. Erano artisti, letterati, italiani sensibili, colti, geni immortali. Eppure, neanche un secolo fa, più o meno, andavano a caccia con piacere. “Tutto il giorno - scrive un amico del Cigno di Busseto - lo passa all’aperto, in campagna e suo svago preferito è la caccia”. Regala fucili ai più intimi per convincerli a fargli compagnia. Torna da Londra compiaciuto con due fucili fini di fabbricazione inglese, che allora, come oggi, erano di un'eleganza impareggiabile. Di Puccini cacciatore praticamente si sa tutto. Anche di quella volta che, per una storia di bracconaggio, finì in tribunale, con Gingino, cacciatore di Massaciuccoli, suo compagno d'avventure. E di Tomasi di Lampedusa? Solo un cacciatore appassionato e competente poteva dettagliare un'azione di caccia al coniglio, tipica siciliana, come quella che descrive.
In questi cento anni, molti, moltissimi sono gli uomini e le donne d'ingegno che si sono dati anima e corpo alla caccia. Perchè, allora, a così poca distanza di tempo - cos'è un secolo, rispetto ai millenni della nostra storia? - questa nostra società fa di tutto per "rimuovere" un passato che ha modellato migliaia e migliaia di egregie personalità?
E' il tempo, appunto, che in questa nostra vicenda, da al massimo da cinque-sei generazioni, corre veloce, brucia le tappe, macina le più solide convinzioni. Le nostre più consolidate tradizioni. Sì, le tradizioni. Esistono ancora? Chi le sostiene? Siamo solo noi, cacciatori, inguaribili romantici, a darvi ancora importanza? O anche queste, caccia a parte, sono ormai diventate un simulacro di quello che furono, sacrificate sull'altare del...consumo?
Ai tempi del primo boom tecnologico, dei pionieri dello spazio, c'era chi immaginava mondi alieni, dove cacciatori riforniti di attrezzature avveniristiche si avventuravano in cerca di mitici migratori galattici. Nel frattempo, però, si assisteva perlopiù ignari al sacco dell'ambiente. E le magnifiche sorti e progressive del progresso, appunto, non davano peso all'enorme crescita demografica. In cento anni, sono cresciute folle di benestanti, ma anche e soprattutto miriadi di affamati che reclamano spazi, case come termitai, terreni da coltivare. In Italia, tanto per dire, in un secolo la popolazione è raddoppiata, e mangia molto di più e molto meglio. Fortunatamente.
Come novelli apprendisti stregoni, pasticcioni, i nostri governanti e chi sta dietro di loro, in tutto il mondo, non si accorgono che l'agitare inconsultamente la loro bacchetta magica crea disastri. Ecco allora che ai padroni del vapore viene l'urgenza di dirottare le attenzioni di tanto strazio verso l'anello più debole della catena. Quello che pur benestante genera meno profitti. Si creano le situazioni per rimodellare, lentamente, i soggetti di riferimento. Squalificato il cacciatore, resta il bisogno del contatto con la "natura". L'inurbato s'inventa la casetta in campagna, fa trekking, si alleva il cane da salotto, si tiene il ghepardo sul terrazzo, il gatto sul divano. E il cappottino, l'impermeabile, i bigodini, come se all'improvviso il mondo si fosse popolato di vecchie zitelle inglesi. Nascono i conflitti. Prima, insieme ai contadini, eravamo noi, cacciatori, i soli "utenti" del bosco, del prato, della palude. Con rispetto. Ora arrivano masnade di metropolitani, che credono di sapere tutto e brandendo il manuale delle giovani marmotte non si accorgono che è la massa, anche imbelle, falsopacifista, politicamente corretta, che fa danno. Troppi, sprovveduti e presuntuosi. E arroganti. Gente che ha dimenticato il principio socratico (la dotta ignoranza: so di non sapere). E il numero, in democrazia (??) fa peso. Uno vale uno, dicono certi nostri sciagurati concittadini, e uno più uno più uno fanno una marea di voti.
In sostanza, per ricollegarsi al dibattito contemporaneo che invita a ripensare la città, ritengo invece che tocchi anche a noi, cacciatori, rimettere in equilibrio il rapporto fra città e campagna, ricordando che la campagna produce il cibo, e la città lo divora. E metaforicamente il gregge metropolitano se non ben "coltivato", finiti (direi meglio "consumati") i verdi pascoli, prima o poi divorerà se stesso. E questo sarebbe un guaio per tutti, non solo per noi cacciatori.Secondo me, quindi, serve una diversa educazione. E starebbe anche a noi, depositari delle vecchie e misconosciute sapienze, metterci una pezza.
Voi che ne dite?
Alberto Semplice