Non è il tordo amaro nelle carni, quando in inverno sono settimane che si rimpinza di olive. E non è neanche l'amarezza per il tordo che fu. Anche oggi, volendo, non solo all'estero si possono fare buone giornate. E' invece il sentimento felliniano della nostalgia per la giovinezza, per un tempo in cui - visto con gli occhi dell'oggi – tutto era bello, tutto era magico, tutto era irripetibile.
Il cacciatore, pur avanti negli anni, come chi scrive, dimentica gli acciacchi e gli affanni quotidiani filtrandoli attraverso i suoi occhi di eterno fanciullo. Quello che è successo ieri, stamani, dà le stesse sensazioni che si provarono ormai quaranta - cinquanta anni fa. In altre parole, il tordo che oggi ho in tasca è bello e importante come quello che, bambino, al capanno col babbo, andai a raccogliere quando avevo ancora i calzoni corti. E non credo che questo mio sentimento sia peregrino. Ricordo, con gusto, la prefazione del Senatore Collacchioni al bellissimo libro di Mario Puccioni (Cacce e Cacciatori di Toscana), dove quel grande personaggio confessa candidamente, con semplicità, che anche per lui e per tutti quelli come lui (impegnati nella politica, nella gestione di grandi e complicati problemi), ma nel contempo appassionati cacciatori, andare a caccia, parlare di caccia, scrivere di cacce e di cacciatori è impegno altrettanto grave assai, che ognuno di noi vive come fosse questione di primaria importanza. Quello che gli altri considerano di poco conto (la caccia), per noi è una cosa tremendamente seria e guai a chi ci guarda con sufficienza.
Quale che sia il tipo di caccia.
Il tordo, si diceva. Chi lo conosce, chi lo ha frequentato, da cacciatore, ne canta le lodi. Sull'argomento, personalmente, ricordo dei leggerissimi versi di un poeta contemporaneo (Renzo Gherardini), paragonabili senza tema a un'egloga di Catullo. Ma ricordo anche gli occhi lucidi del babbo, quando andava a raccogliere il primo tordo della stagione. L'incanto dell'autunno, il venticello fresco del nord, lo spettacolo del mondo che si sveglia, scoperto attraverso la feritoria di un capanno di frasche, la primavera sonora del tordino in gabbia che manda al cielo la sua sfida d'amore; lo zirlo impalpabile nel barlume dell'alba imminente, la materializzazione dello scuro folletto sulla bronca sistemata a balcone, per meglio vederlo e meglio tirare. L'odore acre, penetrante, della polvere da sparo che bruciando ha spinto fuori i pochissimi pallini dell'11, - piccoli, per non fargli male, per non sciuparlo - racchiusi nella cartuccetta caricata a mano, riutilizzando bossoli usati e borraggio approssimativo. La batteria dei canori che improvvisamente si zittisce. Il silenzio irreale che segue, per poi esplodere di nuovo, poco dopo, in una sinfonia di versi che ti apre il cuore. Questo io ricordo, di allora, all'epoca della mia iniziazione. Era l'atto finale di un modo di fare caccia che durava tutto l'anno. Una cura amorevole dei richiami in gabbia. Un battutino di radicchio, vermocchi (crisalidi del baco da seta), a volte un po' d'uovo sodo per dare vigore al canto degli uccelli, che toccava a me triturare finefine con la mezzaluna – che palle, a volte! -, la pulizia delle gabbie, il rifornimento di acqua nei bignoli (i beverelli), la chiusa rigorosa in una stanzetta buia (oggi, molti amici, hanno installato un sistema artificiale di modifica delle ore di luce, con un temporizzatore regolato da un computer: l'effetto sulla modifica stagionale dell'estro, dicono, è portentosa!), le fiere degli uccelli, le gare canore, la visita al roccolo di Biagino, per scegliere i presicci (maschio o femmina non era dato, allora, di sapere), le infinite discussioni e rivalità sulla bravura dei propri beniamini, chiamati per nome, le dispute per il capanno migliore. La preparazione del posto, con il sottobosco pulito a specchio per non perdere neanche una penna del risultato della giornata, la sistemazione degli alberi di buttata, la mimetizzazione del capanno, il posizionamento ideale dei richiami. Tutto, proprio tutto faceva e per molti, moltissimi fa ancora parte di quell'orizzonte minimo ma infinito dell'essere cacciatore. Dal barbiere, al circolo, in armeria, in piazza del mercato, oltre al calcio, l'altro argomento leggero, forse ancor più piacevole, era quello della caccia.
Ai primi di ottobre, tutte le mattine, un'ora prima dell'alba, il babbo mi svegliava, prendevamo il caffellatte, si preparava il fardello delle gabbie, la colazione e fucile e zainetto militare in spalla si partiva a piedi verso la collina. Una mezzora di sentiero buio, silente, la campagna era ancora tutta addormentata, e si entrava nel mondo più bello che si potesse immaginare. Trepidanti tutte le mattine, in attesa dell'ignoto. Di quel migratore misterioso che per ragioni ancora recondite ai più arrivava o non arrivava, era tranquillo o nervoso, si posava appena sui rami per ripartire subito, o si buttava sopra la gabbia del tordino, come se lo volesse salutare di persona (si, di persona, perchè, come per gli indiani d'America, come per il grande cacciatore mongolo Dersù Urzalà, quel tordo era come noi, un essere dotato di spiritualità, al quale si doveva rispetto, onore, riconoscenza).
La prima dozzina andava al prete, poi toccava al dottore, che – dispiaciuti di non proter praticare per questioni di tempo e di lavoro la nostra passione - apprezzavano sopra ogni altra cosa il prezioso dono e prelibato.
Più avanti nel tempo, con le strade più comode, motorizzati, si partiva con una MV Agusta, io con le gabbie in spalla, e ci si avventurava sulla montagna, o giù, nella vasta pianura, alla ricerca di posti mitici, che spesso si rivelavano solo un mito e nientaltro. Con l'emancipazione dei diciott'anni, si allargò la squadra dei compagni di caccia. Cambiarono le destinazioni. La maremma mi ricorda un ultimo dell'anno freddo da ingrullire, un vento che tagliava le gote, con i sasselli e le cesene che si avvolgevano a branchi sulle punte dei quercioli. E poi un rientro ai margini di un oliveto, con i tordi che sfilavano lesti come saette fra un ulivo e l'altro. E i tordi della Calabria, allo spollo nei giardini di mandarini o appostati fra olivi secolari, veri e propri monumenti della natura.
Un intervallo di una decina d'anni da lodolaro (prima in maremma, poi nella bonifica dell'agro romano, poi in Calabria), con civette, zimbelli vivi, specchietti, macachi, richiami in gabbia da urlo (Alighiero Ammannati, il presidente dell'Enci, era disposto a rischiare una fortuna per appropriarsi dell'intera batteria), qualche stornellata con zimbelli gabbie e gabbione, poi la quasi quiete del mio essere tordaro, travolto da cacce esotiche, forestiere, acquatici soprattutto, vera e propria passione di gioventù, per poi a distanza di decenni ritornare con nostalgia al capanno con Pietro, tordaiolo provetto, con l'appostamento a Sassetta, tutti i giorni consentiti due ore a andare e altrettante a tornare, per riassaporare l'atmosfera un po' retrò di quel mondo che mi vide fanciullo euforicamente entusiasta, che pensavo di aver perso, ma che è ancora vivo, vitale e pieno di speranze per una caccia autentica, vera fino in fondo, che nasce all'alba della nostra civiltà, quella di Catullo, di Orazio, di Virgilio, e che merita di essere vissuta anche dai nostri pronipoti, probabilmente viaggiatori interstellari.
Ieri, mi ha detto Massimo che ha preso il primo tordo. Mercoledì andrò al capanno con lui.
Andrò a trovare anche Pietro a Sassetta. E Pier Luigi, nel suo capanno di Pastina, a Santa Luce.
E aspetterò bottacci e sasselli, e cesene, appostato su uno scollino sui monti di Marradi.
Le mie orecchie, devastate dalla sindrome del cacciatore, non sentono più il dolce zirlo. Ma il mio fucile è ancora veloce.
Spero.