Quando il gioco si fa duro... dice quel vecchio adagio. Il resto ve lo ricordate anche voi. E non c'è dubbio che in questi ultimi anni nel mondo, in Europa, in Italia la musica sia cambiata davvero. La feroce pandemia, la guerra nell'Est Europa che erode tutte le nostre certezze, ma prima ancora la consapevolezza col Next Generation EU (Green Deal compreso) che c'è qualcosa di storto nei nostri comportamenti, tutto questo ha richiamato l'attenzione sulla tanto decantata e mai affrontata questione ambientale.
E' più di mezzo secolo ormai che soprattutto le nostrane organizzazioni ambientali hanno cambiato il loro approccio verso una visione animalista da salotto. Malcelati interessi di ogni genere hanno favorito questo processo cavalcato dai politici spesso per meschini interessi di bottega. Con contorno di parcomanie e brambillate varie. Poi sono arrivati i grillini e il fenomeno è ulteriormente degenerato. E giù soldi a gogò a finanziare tutte le sciocchezze partorite da movimenti che da Pannella in poi hanno scelto la caccia come capro espiatorio, senza intaccare il resto.
Oggi, purtroppo, la pacchia è finita e si ricomincia a riflettere sulle cose serie. Forse ci volevano anche i cinghiali a Roma, la peste suina, la distruzione dei raccolti, per capire che occorre cambiare indirizzo. Questo ministro, Cingolani, sembra sia fatto di una pasta diversa dai suoi predecessori. Vengono in mente i due campioni di inconsapevolezza del loro ruolo: il mitico Pecoraro Scanio e l'inadatto Costa, ambedue ...costole del fu glorioso movimento verde.
Di fronte al dilagare dei cinghiali, aggravato dalla PSA, seppur a fatica nel Parlamento si è provato a prendere provvedimenti. Prima tentando di scardinare l'842, consegnando agli agricoltori la doppietta, poi finanziando la recinzione diffusa delle aree infette. Tentativi goffi per evitare di mettere mano all'impianto ormai stantio della 157/92 (prelievo venatorio) e della 394/91 (parchi e aree protette).
Ovviamente, come noi sappiamo, le cose da fare sono ben altre. Se vogliamo salvare quel poco o tanto che resta della biodiversità dello stivale, lor signori dovranno cominciare a tener conto anche dell'apporto dei cacciatori, che fino ad oggi - con tutti i limiti e tutti gli errori che ci si possono attribuire - hanno continuato in silenzio a fare il loro dovere per preservare questo incommensurabile patrimonio. Prova nei sia che la gran parte delle specie selvatiche che non soffrono sono ancora, e ridico ancora, oggetto di caccia. Con notevole successo, se pensiamo per esempio ai tordi, ai colombacci, alle anatre che abbondano nelle residue aree umide ancora in piedi grazie proprio all'impegno dei cacciatori.
La colpa, infatti, non è del tordo, come allegramente cantava negli anni settanta l'indimenticata Luiselle, ma dell'errata concezione del rapporto fra uomo e natura. Anzi, diciamola tutta, fra uomo e campagna, visto che la natura primordiale in Italia e in Europa è stata da secoli sostituita dal paesaggio rurale diffuso, oggi minacciato da un'industria, anche agricola, dalla quale finalmente si cerca di prendere le distanze.
Ci riusciremo? Riusciremo a recuperare quel ruolo determinante che la caccia ha sempre avuto per la gestione del territorio e delle specie selvatiche?
Augurandoci che non si arrivi alla caccia per bisogno (povertà, fame, carestie), dipenderà in buona parte anche da noi, se sapremo proporci come moderni interlocutori di una complessità che il mondo fino ad oggi ha rifiutato di comprendere.
Frattini permettendo, che dall'alto scranno che occupa contribuisce a promuovere i punti di vista delle Brambille e dei Pecoraro. Per non parlar di quel Tozzi che si è appropriato della TV pubblica per raccontare le sue false verità.
Aurelio Tommasi