Vorrà pur dire qualcosa se il colombaccio, soprattutto nell'Italia centrale (dove la tradizione della caccia alle palombe è qualcosa di ben radicato) registra un “forte incremento”. Il dato, nuovissimo, relativo alle rilevazioni effettuate dal 2001 al 2015 dall'Osservatorio regionale dell'Umbria, è l'ennesima conferma, dopo che anche Ispra nei suoi periodici, lenti, report (l'ultimo relativo al periodo 2008 – 2012 pubblicato lo scorso anno è l'aggiornamento degli status per il periodico rapporto sulla Direttiva Uccelli) aveva confermato il trend estremamente positivo: “molte popolazioni nidificanti”, “ampia distribuzione”, “incrementi numerici consistenti”, giustificati secondo Ispra da “una migliore regolamentazione del patrimonio forestale” (leggi dall'incremento delle aree protette).
La lettura faziosella dell'istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, che proprio nelle ultime settimane ha allargato la propria leadership scientifica proprio nei Parchi grazie alla riforma approvata in prima battuta in Senato (l'ente viene promosso ad unico istituto in grado di dare pareri sul controllo della fauna selvatica e altro), nasconde un'ovvietà: è soprattutto qui, nell'habitat boschivo, protetto o non, che le specie ornitiche, meglio difese da inquinamento e pesticidi, proliferano. A dimostrazione che i reali problemi degli uccelli sono la riduzione dei loro spazi vitali (luoghi di svernamento e nidificazione) e l'utilizzo di pratiche agricole distruttive della biodiversità, contrastate in alcuni casi solo dalle marginali colture a perdere organizzate sul campo dagli Atc e dai cacciatori proprio per garantire la sopravvivenza delle specie cacciabili nidificanti.
Il dato relativo agli habitat forestali fissato dalle accurate ricerche dell'istituto umbro, è estremamente positivo: il 73% delle specie forestali risultano addirittura in aumento. Di contro invece soffrono le specie tipiche dei campi coltivati. Fra queste la condizione più frequente è quella della diminuzione (36% delle specie). Stabili il 30%, in incremento il 33%. Il che non è poi così drammatico: sommando le stabili e quelle in incremento si raggiunge comunque la maggioranza. Ma c'è un altro dato che porta in evidenza l'incidenza diretta dell'esposizione ai prodotti fitosanitari: ovvero che tra quelle definite più sensibili a queste sostanze (per habitat e tipo di alimentazione) si contano molte più specie in diminuzione (58%) rispetto alle restanti, in declino “solo” per il 24%.
Calano in Umbria soprattutto le specie “di prateria”, a causa della perdita degli habitat per l'inesorabile abbandono di quelle attività agricole e zootecniche tradizionali che impedivano al bosco di riappropriarsi degli ambienti aperti creati dall'opera dell'uomo. Ecco quindi che si palesa nuovamente quel distaccamento plateale tra la natura vissuta e incoraggiata dalle attività delle comunità contadine e quella filosofia piaciona dell'ambientalismo di città, che rinchiude, emargina e di fatto lascia impoverire.
Il dato eclatante, comunque, è che lì dove i cacciatori li vanno a scovare, facendo i loro lauti carnieri, gli uccelli non hanno problemi conservativi. A dimostrazione del fatto che la caccia, non stanchiamoci mai di ripeterlo a chi ci accusa di fantomatiche stragi, non inficia e non può inficiare, se non in casi di depauperamento già avviato delle popolazioni, su questo stato di cose. In Umbria, riguardo alle specie cacciabili, si registrano incrementi anche per gallinella d'acqua, gazza, ghiandaia, merlo, storno e tordo bottaccio.
La prova del nove è arcinota, basta confrontare le evidenze scientifiche allineate ai dati sulle consistenze e le migrazioni che interessano anche altri Paesi. I Tar lo hanno certificato, riconoscendo l'ovvio. Quando ci sono dati aggiornati e dettagliati è difficile sostenere che i calendari debbano allinearsi a concetti fermi da decine di anni. Ispra con tutto l'impegno possibile non è in grado di gestire migliaia di punti di osservazione in tutta Italia, una realtà ormai diffusa grazie soprattutto all'impegno del mondo venatorio. Questa è la strada del futuro? Speriamo.
Cinzia Funcis