Ormai è una voce che corre, sempre più chiara e stentorea, da Londra a Parigi, dalla Germania alla Spagna, fino alle propaggini più meridionali d'Europa, ovvero il nostro beneamato stivale, isole comprese: stiamo per essere sopraffatti dalla fauna selvatica. Le volpi addentano neonati nella culla e banchettano col vitellino non ancora uscito del tutto dal ventre delle vacche brade, i cinghiali scorrazzano e assalgono cittadini inermi, i lupi minacciano paesani indifesi, fanno strage di greggi, circolano indisturbati nei villaggi, affollano le discariche insieme ai cani inselvatichiti con i quali si accoppiano e prolificano a dismisura. I piccioni torraioli devastano i raccolti, diffondono malattie, gli storni imbrattano e danneggiano automobili, scagazzano nei centri urbani, insozzano strade piazze e monumenti. La nutrie provocano alluvioni, i cormorani rendono impraticabile l'allevamento del pesce, i cervi azzerano qualsiasi operazione di rimboschimento, i caprioli radono al suolo interi vigneti.
Vi basta?
Se non vi basta, parlate con qualche agricoltore che conoscete, e avrete modo di toccare con mano i singoli e diversi episodi, che contribuiscono meglio di qualsiasi statistica a disegnarvi il quadro della situazione. Enorme, gravissimo.
Diciamolo subito. Per quanto riguarda i nostri territori, non è un fenomeno esploso all'improvviso. E' il risultato di una politica sciagurata, figlia di una cultura metropolitana, prodotta e promossa da una classe dirigente inetta, impegnata a sostenere logiche globalizzanti, ispirate da opinionisti manipolati dai soliti noti. Non è stato difficile. Il culto per il bamby disneyano e i suoi parenti è la rappresentazione simbolica di questa disfatta. Già una quarantina d'anni fa, il fenomeno era noto.
L'ineffabile Fulco Pratesi, diolosalvi, inneggiava ai “Clandestini in città", invitando anche a predisporre nidi, casette, "punti ristoro", per quelle moltitudini di coinquilini alati e non alati, che approdati in quei luoghi, le città, per difendersi dai cacciatori, non avrebbero trovato altri "nemici".
Affermazione grave, ben grave, in bocca a uno soggetto, il Pratesi, che proveniente dalle file dei cacciatori, pubblicista ed editorialista di periodici di caccia ("La riserva di caccia", dalla chiara visione privatistica dell'attività venatoria), fondatore insieme ad altri cacciatori del WWF Italia, sapeva benissimo come stavano le cose. Ovvero che non è la caccia il nemico da combattere, ma la stupidità umana. E probabilmente, facendo leva su quella, la stupidità umana, insieme ad altri indirizzò anno dopo anno, sempre di più, quella (il WWF) ed altre organizzazioni a contrastare i cacciatori italiani, additandoli, se non come gli unici, sicuramente come fra i più importanti responsabili del degrado del nostro patrimonio faunistico e ambientale.
Gli fecero eco molte forze politiche, i verdi per primi - ormai scomparsi pace all'anima loro - e altri, in sempre maggior misura, a mano a mano che capivano che l'anello più debole della catena poteva essere un comodo paravento alle loro inettitudini, e ai volgari interessi di coloro che dietro questo paravento si nascondevano. Ne scaturirono referendum in serie. Ne nacquero due leggi, la 157 e la 394, che oggi, stracciato il velo, mostrano tutta la loro inadeguatezza, figlia in gran parte del "peccato originale".
Dalla prima, quella erroneamente definita "legge quadro sulla caccia", scaturì il concetto - ormai chiaro - che non di attività di caccia si tratta, ma di tutela della fauna selvatica (art 1, 2, 3). Con la caccia come fenomeno incidentale, secondario. Accessorio. Questo ci dicono giuristi, costituzionalisti (adesso anche alla luce della modifica del Titolo V della Costituzione) e sentenze.
Dalla seconda si conformò l'idea che: A) delimitati i confini dei parchi e delle aree protette, in tutto il resto del territorio si potevano commettere le più inusitate nequizie a danno dell'ambiente; B) Nei parchi e nelle aree protette tutto si poteva fare - pur se in misura organizzata - tranne che consentire ai cacciatori il benchè minimo e organizzato prelievo (anche certe timide modifiche in corso d'opera hanno dimostrato la determinazione dei principii fondanti).
Risultato: la funzione equilibratrice dei cacciatori sul territorio si è più che dimezzata; parchi e aree protette, paradisi malgestiti e comunque inaccessibili a una coerente gestione del patrimonio faunistico, hanno favorito l'incremento di specie opportuniste, ungulati per primi, che ormai - lungi dall'essere considerati una risorsa - provocano gravissimi problemi all'agricoltura, al patrimonio forestale, alla circolazione, alle casse delle amministrazioni locali. Senza contare i lutti e le disgrazie che ormai sono cronaca quotidiana.
A questi guai, dovrebbe essere il governo a porre rimedio. Per ora, tuttavia, anche nelle more di arrivare a un esecutivo stabile, da quelle latitudini provengono solo flebili belati. L'ente scientifico preposto dipende (anche e soprattutto economicamente) dal Ministero dell'Ambiente, dove la materia specifica è soprattutto appannaggio di un apparato cresciuto all'ombra di associazioni ambientaliste/animaliste e di partiti politici ideologicamente orientati; le competenze agricole sono subalterne a leggi, regolamenti e burocrazie, atte più a creare ostacoli che a cercare soluzioni.
Visto il quadro, cosa ci possiamo augurare? In attesa che si ponga mano a una totale - ripeto TOTALE - riscrittura delle due leggi figlie di un'altra epoca ormai morta e sepolta, da una parte al Governo e al Parlamento si dovrà chiedere con urgenza una serie di misure straordinarie che consentano alle realtà locali di arginare un diluvio che rischia di mandare in crisi forse uno dei pochi sistemi che ancora costituiscono il motore del nostro sviluppo, l'agricoltura. Da cui dipende un'articolata serie di produzioni di qualità apprezzate in tutto il mondo, e la tutela e la conservazione del paesaggio, bene primario per l'industria principale del nostro paese: il turismo. Due eccellenze che la nostra politica si è intestardita a disconoscere.
Dall'altra, un atteggiamento più consapevole di fronte all'inadeguatezza dei soggetti e degli strumenti per tenere sotto controllo l'abnorme presenza degli ungulati. Prima di tutto un ricollocamento equidistante dell'organo tecnico (l'Ispra), sotto la responsabilità della Presidenza del Consiglio e lo spacchettamento dello stesso in tanti Ispra regionali, più adatti a capire i problemi e più celeri nell' adottare provvedimenti.
Infine, considerare, insieme alla fauna selvatica, anche i cacciatori stessi una risorsa fruibile, patrimonio di conoscenze e di cultura dei quali è sempre più difficile fare a meno. A meno che, a meno che non si voglia mandare in campo l'esercito. E allora la partita si farebbe veramente drammatica. Anche sotto il profilo economico.
Renzo Mattioli