Si fa un gran parlare oggi della green economy. Non solo. E' convinzione universale ormai che tutto ciò che è nuovo, è moderno, è politicamente adatto alla società del futuro, è green. Bene. Se tanto mi dà tanto, anche la caccia del futuro dovrebbe essere green. Secondo me, addirittura, se c'è stato, se c'è, se ci sarà qualcosa di veramente green, questa è proprio la caccia. Intesa, ovviamente, come la deve intendere un cacciatore di quelli veri. Di quelli, senza tempo e senza topos – penso ai cacciatori delle steppe mongole e agli indiani delle praterie, ma anche agli inuit, ai tanti Derzu Urzala, come ai cacciatori descritti da Ernest Hemingway e da Wilbur Smith, a quelli di Mario Rigoni Stern, a quelli richiamati dalle filosofie di Carlo Petrini – che in sintesi rispondono al paradigma da tempo in uso anche fra di noi, che recita: la caccia è naturale, senza ambiente non c'è fauna, senza fauna non c'è caccia. Ovvero, quei cacciatori che sono i primi a sapere e a professare un ambientalismo ragionato.
Alcune settimane fa, si sono tenuti a Rimini, alla presenza del ministro dell'ambiente, gli Stati Generali della Green Economy (“per fare uscire l'Italia dalla crisi”, si legge; si veda al proposito
questo link - clicca qui -). Non se n'è parlato molto; tuttavia, fra le tante sfide che da lì sono state lanciate, non sarebbe male che su alcune ci soffermassimo anche noi che amiamo perderci in riflessioni su ciò che si dovrebbe fare per dare un futuro meno precario a questa nostra bellissima perversione.
Sorvolando sulle misure generali, che interessano più gli economisti del governo dei tecnici, che la gente comune come noi, fra i 70 punti enunciati, quelli che ci potrebbero riguardare anche direttamente sarà bene appuntarceli, quantomeno per acquisirne consapevolezza e valutarne gli indirizzi, affinchè, come al solito, non ci trovino purtroppo sprovvedutamente impreparati quando diventeranno concreti strumenti di gestione anche delle cose che ci riguardano.
Per esempio: si dovrà porre molta attenzione, quando si passerà dalle parole ai fatti, nel declinare il concetto di “Tutela e valorizzazione dei servizi degli ecosistemi”, volta a ricostituire “gli stock di capitale naturale, tutelando e valorizzando i servizi forniti dagli ecosistemi, basi indispensabili per il nostro benessere e per il nostro sviluppo economico”.
Perchè, se non si può non essere d'accordo nel tutelare e valorizzare il territorio italiano, soprattutto per interrompere i processi di degrado e alimentare attività di risanamento e recupero, dare forza di legge a linee fondamentali che ne tutelino l’assetto, che ne fermino il degrado e il consumo e forniscano i riferimenti per una seria gestione, bisognerà stare molto attenti quando si passerà a inquadre le soluzioni collegate alla tutela delle aree naturali, che ovviamente per noi non dovrà limitarsi a quelle cosiddette protette, che fino ad oggi – a fronte di un totale fallimento – hanno consentito che sul restante territorio si commettessero le più turpi nefandezze, mascherate non ancora dal termine green, ma da quello più classico, più aulico, di “eco”. “Ecologico”, “ecopolitica”, “ecoballe”, concetti che abbiamo visto che fine hanno fatto sotto le amministrazioni di cotanti (e tracotanti) politici cosiddetti ambientalisti, oggi anche “ecodem”, ma non solo.
Meglio sarà se ci si applicherà su problemi ben più concreti, come la tutela delle risorse idriche, per realizzare usi efficienti e migliorare la qualità delle acque. E tanto per non parlare a vanvera, sarà bene ricordare che dell'uso che in Italia se ne fa, dell'acqua, oltre il 70% va a finire in agricoltura. E non quando piove, ma soprattutto quando “non” piove. Perchè quando piove abbiamo visto, anche in questi giorni, purtroppo, dove va...l'acqua. Poiché, come ricorda puntualmente e a proposito Carlo Petrini, oggi i contadini non la portano più “a spasso per i campi”, l'acqua. Ed è soprattutto lì, nell'agricoltura, modificandone le pratiche ove sarà necessario, che si dovranno incrementare le politiche di risparmio.
Altro riferimento, su cui applicarsi, quello della bonifica dei siti contaminati. Dove altrimenti, poco - e comunque intossicato - crescerà di utile per l'uomo ma anche per gli animali e per la fauna selvatica.
E infine, un occhio di riguardo, un po' di attenzione per favore, anche ai boschi e alle foreste. E' una pena indicibile per noi, che per storia, cultura e tradizione, da cacciatori, abbiamo sempre goduto di queste verdi meraviglie (oggi “green”) e usufruito dei loro frutti, selvaggina compresa, è una pena vedere immiserire decine di migliaia di ettari di castagneti fiaccati da una moschina cinese, querce secolari che muoiono improvvisamente, chilometri di viali di cipressi annichiliti, sentinelle del nostro paesaggio, e infinite altre essenze vegetali delle nostre campagne, che cadono sotto i colpi di parassiti ingrassatisi a causa dell'incuria, dell'abbandono, ma anche conseguenza di errati piani...”green”.
E la cosa che più fa specie, in questa vicenda, è che proprio da questo manifesto, che vorrebbe tracciare la linea di demarcazione col passato, con i suoi 70 comandamenti, in filigrana si legge esplicitamente un ammissione di colpa che l'attuale idea di sviluppo – subentrata a quella che per secoli, per millenni ha regolato l'evolversi delle nostre comunità, quella “rurale”, per intendersi, arcaica forse, ma oggi rivitalizzata con il termine di “green” - ha commesso in questi ultimi decenni, in cui ha spadroneggiato l'ideologia ecologista-ambientalista. Simbolo di un tragico fallimento, e ridotta ormai a squallido animalismo, che fa venire in mente quelle quattro squinzie di Hollywood, zombi col belletto, che per esorcizzare l'inevitabile tramonto, irrompono nei salotti newyorkesi col maialino al guinzaglio.
Parodiate in Italia da chi va in giro con gli asini.