Nell'ambito del vario e articolato dibattito sulla questione ungulati, che sta interessando i più vasti strati della società italiana, pubblichiamo con piacere la prefazione del Prof. Sandro Lovari, Professore di Biologia della Conservazione all’Università di Siena, al manuale: UNGULATI, Capriolo, Cervo, Daino, Muflone e Cinghiale, realizzato dal "biologo della fauna selvatica" Paolo Varuzza, con il contributo di Roberto Mazzoni della Stella, edito da Geographica s.r.l. Un interessante riferimento per affrontare con cognizione di causa l'argomento, ma anche per coloro che vorranno impegnarsi nel "prelievo selettivo", o semplicemente per conoscere la biologia e le abitudini delle cinque specie selvatiche trattate.
Due secoli fa il filosofo e saggista nordamericano Henry David Thoreau scriveva che nell’ambiente naturale incontaminato sta il salvataggio del mondo e, aggiungeva, forse questo è il significato nascosto dell’ululato del lupo da sempre esistito tra le montagne, ma raramente percepito nel suo vero significato dall’uomo. Troppo a lungo ci siamo allontanati dall’ambiente naturale, perdendo la capacità di interpretarne il linguaggio, i segni e il significato. Questa è stata una perdita culturale forse inevitabile, ma certamente gravissima perché – bene o male – è nell’ambiente naturale che le nostre città, le nostre strade e i nostri campi agricoli si estendono, erodendolo costantemente.
I recenti incendi dolosi nella foresta amazzonica, che hanno distrutto oltre duecento cinquantamila ettari di foresta solamente nel mese di Luglio 2019 e che continuano a divampare tuttora (Settembre 2019) non sono una novità e vengono appiccati per creare spazio a nuove terre agricole e di pascolo, producendo un danno ambientale di incalcolabile importanza, irreparabile in tempi medio-brevi. Fino a circa diecimila anni fa l’uomo viveva in un buon equilibrio con le risorse naturali: la fauna e le piante eduli selvatiche costituivano per lui una risorsa alimentare di primaria importanza, che ne regolavano i numeri.
Poi, con la scoperta graduale dell’agricoltura e dell’addomesticamento, l’uomo è passato con rapidità da essere una specie K-stratega (cioè una specie la cui abbondanza venga regolata dalla disponibilità delle risorse naturali, con le quali vive in equilibrio) a una specie r-stratega (cioè con una rapida crescita soltanto interrotta da catastrofi occasionali, p.es. pestilenze e guerre). L’agricoltura e l’allevamento degli animali domestici hanno di fatto eliminato i limiti alla crescita numerica dell’uomo: più siamo numerosi, maggiori sono le nostre esigenze alimentari, che possiamo però soddisfare aumentando la produzione agricola e zootecnica, a spese dell’ambiente naturale.
Incontrovertibilmente sempre più grande sarà così il nostro impatto su esso. In questi ultimi secoli, poi, i progressi della medicina, diminuendo moltissimo il nostro tasso di mortalità, hanno contribuito a farci ulteriormente crescere di numero. Con la diminuzione degli ambienti e delle risorse naturali, ci allontaniamo sempre più da essi e stiamo arrivando al paradosso che le nuove generazioni non di rado ignorano tutto delle piante e degli animali selvatici. La progressiva e accelerata erosione delle discipline “naturalistiche” di base nelle nostre università, con invece un’enfasi crescente su quelle zootecniche e agricole (il cosiddetto Agribusiness: discutibile e brutto neologismo che rimarca l’aspetto affaristico e produttivo dell’uso delle campagne) non promette niente di buono per il futuro.
Il libro di Paolo Varuzza cerca di veicolare le conoscenze utili per capire il “linguaggio” degli ambienti selvatici (o piuttosto para-selvatici, perché di ambienti realmente selvatici oggi ne restano ormai pochini nel nostro paesaggio!) attraverso la decodificazione dei segni, delle tracce e delle orme lasciate dagli ungulati. Insegna come gestire e anche usare (perché no?) in modo sostenibile le popolazioni di cinghiali, caprioli, cervi, daini e mufloni: tutte specie di interesse venatorio, di norma mal amministrate dall’uomo.
La vera gestione deve essere fatta non con il cuore, ma con la testa: purtroppo sono pochi i cacciatori che sanno emanciparsi dall’emotività, dal piacere della caccia, per trasformarsi in tecnici dell’ambiente. E sono forse ancora meno coloro che si rendono conto dei danni che l’animalismo può determinare. Entrambi sono approcci emotivi ed entrambi incompatibili con una saggia gestione della fauna. Che piaccia o no, nei nostri ambienti così pesantemente antropizzati, anzi: sempre più antropizzati, la fauna non può non venire gestita: è una presenza che, se non correttamente amministrata, può diventare invasiva. Certamente è colpa nostra se, aumentati a dismisura di numero, per primi ne abbiamo invaso gli spazi. Tuttavia non sarebbe realistico ignorare i conflitti che possono derivare oggi dalla mala gestione – o dalla non gestione – della fauna. Dunque… ben venga la “buona” gestione, che (....) Paolo Varuzza auspica e ci aiuta a capire.
Mi piace concludere (...) con le illuminate parole che Aldo Leopold, il fondatore della scienza del Wildlife Management (gestione della fauna selvatica) scriveva nel 1948 “La conservazione è uno stato di armonia tra l’uomo e la terra”. Meditiamoci sopra.
Sandro Lovari