Sorvoliamo, è proprio il caso di dirlo, per un attimo il concetto collegato alla direttiva UE, che tanto ci appassiona, e proviamo a soffermarci, ma non troppo, su cosa potrebbe significare se questa prassi della “piccola quantità” l'adattassimo ai comportamenti della gente.
Di quella gente, beninteso, che in questi giorni suda e si accalora intorno alle questioni che, più in generale, ci riguardano. Per esempio: la tanto discussa revisione delle normative sulla caccia, ormai diventata una barzelletta, che ultimamente ha rischiato di tramutarsi in farsa. O, ancora meglio, in una commedia degli equivoci. Si è parlato infatti di un tavolo tecnico, immaginato a quattro zampe (regioni, ambientalisti, agricoltori, cacciatori), ma che neanche tre ne aveva, anche se qualcuno così l'aveva immaginato, tanto da tentare a più riprese e con un impegno degno di miglior causa, come in una seduta spiritica, di materializzare un accordo che era morto prima di nascere. Un aborto, insomma, che sì è cercato di far apparire come vivo e vegeto, e già operante, abusando dell'ormai invalso paradigma di McLuan (“la notizia è il mezzo”, ergo se io – organo emittente di indiscussa autorevolezza - dico che l'accordo degli accordi è fatto, vuol dire che è fatto davvero, altro che chiacchiere!).
Come ormai è chiaro a tutti - meno che a qualcuno che quando ci si mette, non intende usare il proprio potere “in piccole quantità” - è scoppiato un gran casino che ha sfiorato le caviglie anche di qualche segretario di partito, in tutt'altre faccende affaccendato.
Adesso, da più parti, più ragionevolmente, si comincia a dire che quell'accordo – l'avrete capito, si parla del fallito tentativo di uniformare al ribasso l'art 18 (tempi di caccia e specie cacciabili) della legge 157 – è auspicabile che maturi rapidamente, anche se qualcun'altro dice che sì, l'accordo è importante, ma più importante è rifletterci tenendo conto di dati più veritieri. Scientificamente inattaccabili, e non quelli sbandierati ai quattro venti dall'Ispra che a quanto pare non hanno ne capo né coda. E a dirlo, non è certo una fonte di parte, come potrebbe essere quella di quei “selvaggi” dei cacciatori, che – come immagina non solo la Procacci, nota ornitologa, - sparerebbero anche alle zanzare. No, questa volta, a dirlo è il direttore del Cirsemaf, il Centro Interuniversitario di Ricerca sulla Selvaggina e sui Miglioramenti Ambientali a fini Faunistici, di cui fanno parte autorevoli accademici. Il direttore di questo Centro, dunque, il Prof. Alessandro Giorgetti, presidente del corso di laurea in scienze faunistiche all'Università di Firenze, giorni fa ha dichiarato pubblicamente che sull'argomento fauna migratoria mancano da tempo studi organici sui flussi. Rincara la dose il Prof. Emilio Baldaccini, eminente zoologo, etologo, con un curriculum da ornitologo suffragato da decenni di ricerche sul campo, che non esita a sbilanciarsi, nell'affermare che quanto a ricerche sulla migratoria siamo pressochè fermi da almeno vent'anni. E' dal 1939 infatti che non si interviene con un aggiornamento sistematico sulla mappa redatta dal prof. Augusto Toschi, allora giovane brillante collaboratore di Chigi. Visto che nel frattempo è stata gradatamente smantellata la rete degli osservatori ornitologici.
Essì che il fenomeno è di primaria importanza se, come informa Baldaccini, nel nostro paese sostano o transitano cinque miliardi (avete letto bene: CINQUE MILIARDI) di uccelli all'anno! (Ma allora, prova a riflettere il comune mortale – a piccole dosi, usando una piccola quantità della sua non eccelsa disponibilità di neuroni – di cosa stiamo parlando? Com'è possibile che la caccia, ormai più che ultraregolamentata in Italia, incida in qualche misura significativa su cotanta massa di piumati? Chiuso l'inciso!).
D'altra parte, che non ci sono dati l'ha ammeso anche l'ISPRA, quando ha dichiarato di non poter dare un parere sulla consistenza del fringuello in quanto non dispone di dati specifici.
E dunque, ci chiediamo noi, tutti coloro che si strappano i capelli, che sputano sentenze contro la caccia selvaggia, contro l'irresponsabilità dei cacciatori, perché continuano a farlo? Chi credono di infinocchiare? Mah?! A questo punto, qualche dubbio comincia a farsi strada e pur tuttavia questi insistono, cercando ancora di approfittare della piccola quantità di attenzione (o di capacità di discernimento) di un'opinione pubblica e - cosa ancor più grave – di una classe dirigente, distratte, impegnate su altri fronti (monnezza di ogni tipo), nei confronti delle quali si assiste a un bombardamento di sproloqui in libertà, da parte di personaggi che rappresentano spesso poco più che i propri personali interessi, quelli dei loro comitati, sottocategorie, corporazioni, metastasi di un processo degenerativo che ha travolto da tempo quelle praterie di ideali su cui era nata e cresciuta la nostra democrazia.
Quanto all’argomento di nostro specifico interesse, sbaglieremmo se non si capisse che i rapidi mutamenti socioeconomici e culturali di cui è stato oggetto il nostro paese, e il nostro territorio, la (sembra almeno in parte) conseguente situazione climatica e ambientale, sollecitano nuovi e robusti interventi per ridare efficacia alla ricerca, unica soluzione per avvalorare le nostre buone ragioni e tacitare di contro questi falsi profeti di sventure. Che urlano e sbraitano per distrarre l’attenzione dalle gravi responsabilità di una situazione (inquinamento delle acque, dell’aria e dei suoli, dissesto idrogeologico, cementificazione), questa sì, che anche loro hanno consentito che diventasse ormai non più sostenibile.
Non è certo con l’Ispra che daremo soluzioni ai nostri problemi. Già le associazioni (venatorie) più accorte si stanno attrezzando. E meglio faranno se riusciranno a dare il via a un processo virtuoso che ricostituisca quella rete di osservatori faunistici e ornitologici, un tempo vanto anche del mondo della caccia nostrana, in collaborazione con istituiti di ricerca i più attenti, sensibili ai reali problemi che attengono a un patrimonio, quello dell’ornitofauna, ancora oggi ricco, e in grandissima parte in ottima salute.
Un consiglio a coloro, dall’altra parte della barricata, che vogliono sinceramente contribuire a risolvere i problemi della caccia. Il “wise use”, il saggio utilizzo che anche l’Unione Europea ci raccomanda, serva da monito per tutti. Ma proprio per questo, la modica quantità sia applicata soprattutto agli interventi di restyling delle normative nostrane. E, prima di incidere sull’articolo 18, si provi a impegnarsi tutti insieme a individuare le leve, quelle vere, che possono mettere ordine – e non disordine – alla materia. A questo serva il “tavolo”, non a far passare dalla finestra quello che dalla porta, l’abbiamo constatato anche in quest’ultima vicenda, non passa, non può passare.
Vito Rubini
P.S.
A proposito di piccola quantità, nel pratico, a giorni dovremo tutti riaffrontare, per risolvere almeno temporaneamente, il problema dello storno. Ove si volesse tener conto della lettera c) dell’art. 9 (deroghe) della Direttiva UE, abbiamo notato un’interessante paradigma prodotto recentemente dal dr. Alessandro Andreotti (Ispra). Dal quale si evince che da uno stock di 50-200 milioni di soggetti presenti mediamente in autunno in Italia, tenendo conto di un 60% di mortalità (ovvero 30-125 milioni di soggetti morti per cause diverse, caccia esclusa, in quanto non praticata), l’1% ordinariamente inteso come “valore minimo” da parte della comunità scientifica internazionale, la quantità prelevabile di storni in Italia oscilla fra un minimo di 300.000 e un massimo di oltre 1.250.000. Cifre che secondo noi possono essere moltiplicate anche da tre a cinque volte, consapevoli del fatto che altrove, in Europa, in diversi casi il parametro adottato per la “piccola quantità” è stato collocato al tre per cento, quando non addirittura al cinque.