Può capitare di aprire un vecchio armadio rimasto chiuso da tempo. La maggior parte delle volte non uscirà altro effluvio se non quello della naftalina intrisa in vecchi abiti fuori moda, degni appena di un magnanimo ricordo e tutti destinati all’opera pia.
Ci sono però armadi che contengono oggetti la cui magia ti pervade nel fatidico momento nel quale li apri. Un completo da caccia, due stivali e un cappello, una borsa in pelle, di quelle chiamate alla genovese, tre fucili, due grandi, forti e pesanti, nei loro foderi e uno piccolo, appoggiato nell‘angolo in fondo, quasi invisibile, incartato e legato nella carta oleata, gialla e trasparente dal grasso, non la miglior carta per un regalo, ma dentro il miglior regalo di sempre che neanche un Natale, tra i più meritevoli, mi avrebbe mai più portato. Il regalo del cacciatore.
Tra me e quell’uomo antico, mai conosciuto, proprietario di quegli oggetti, si instaurò immediatamente una forma di complicità, invulnerabile a qualsiasi proibizione paterna, da cui le vacanze estive e lo stare in campagna con una zia, mi esoneravano. Quindi, lontano da ogni sorveglianza e controllo, tutti quegli oggetti, armi comprese, furono immediatamente traslocati nel centro del mio armadio, cosicché, aprendolo, quella cacciatora di velluto, alla maremmana, ondeggiava, rianimandosi per un breve attimo. Erano ormai alcuni anni che immancabilmente ero calamitato dalle figure di quei cacciatori che, girando in bici per il paese, mi capitava spesso di incontrare quando rientravano dalla caccia.
Li seguivo per un poco, osservandoli e cercando di rubar loro parte di quelle emozioni che dovevano avere appena vissuto. Pedalavano lentamente, senza fretta, tenendo sul manubrio il guinzaglio del cagnino che gli trotterellava a fianco, ingobbiti in avanti per compensare il peso del fucile e della cacciatora, dalla quale sporgeva a volte la coda di un fagiano, a volte le zampe di una lepre; osservavo i loro stivali per capire da dove venivano, se alti al ginocchio erano stati in campagna, o in collina, se avevano i cosciali rimboccati ritornavano dal fiume o dagli stagni. Guardavo i loro vestiti, i fucili, le doppiette a cani interni o esterni, il calcio all’inglese o a pistola, fucili passati di padre in figlio, scoloriti come i loro abiti, rustici e semplici come la loro vita.
Rientravano, uomo e cane, lo sguardo quieto, due viaggiatori guidati da un binario, in attesa degli ultimi metri prima di casa, entrambi con un solo pensiero, cibo e riposo. Adesso avevo anch’io qualcosa in comune con loro, l’anima di uno di loro, racchiusa dentro il mio armadio. Adesso anch’io avevo una doppietta come la loro, con la zigrinatura consumata e le canne scolorite; alla sera la tenevo in mano finché non mi schiantava le braccia dal peso, poi la riponevo e andavo a dormire. Ho aspettato anni, mimando gesti, smontando, pulendo e rimontando quei grossi fucili senza che avessero sparato un colpo, ho passato i momenti di molte vacanze odorandoli, essenze misteriose, frammiste all’odor di chiuso, vestendo quella cacciatora, sempre troppo larga e leggendo tutto ciò che in quella casa c’era da leggere, sia sulla caccia che su quell’uomo al quale ero ora legato a doppia mandata.
Adesso, che parte della mia vita è filtrata nel cono inferiore della clessidra, mi domando se tornare alla caccia potrà servire in qualche modo a resuscitare quel mondo, ma questa è la lezione del cacciatore; quelle emozioni non muoiono, rimangono latenti, schiacciate, compresse da altre emozioni, da altri pensieri, come chiuse in un armadio, fino al giorno che lo riapri; esse non sono come vecchi abiti dai quali ti puoi separare, perché, in fondo, nemmeno ti appartengono, sono un prolungamento generazionale, un richiamo genetico, assopito, che balza di nuovo fuori, meno prepotente di allora, ma che si vuole perpetuare nel ripetere quei gesti, nell’ascoltare i rumori, nell’aspirare gli odori e nel lasciar correre i pensieri del prima e del dopo essere andati a caccia; ecco perché ho deciso che, per la seconda volta, riaprirò quell’armadio.
Fromboliere