“E’istituita in Roma la Federazione Nazionale Fascista dei cacciatori italiani, che si compone delle Associazioni Provinciali dei cacciatori e delle rispettive Sezioni…e fa capo al Comitato Olimpico Nazionale Italiano”.
“La Federazione, organo nazionale, che presiede a tutta l’attività sportiva dei cacciatori italiani, ha il compito di inquadrare e di organizzare, attraverso alle Associazioni provinciali e alle rispettive Sezioni, i cacciatori e i concessionari di bandite e di riserve, al fine della più rigorosa disciplina nella applicazione della legge in armonia con i superiori interessi nazionali”.
Così recitava l’art. 79, commi 1 e 2, del R.D. 15 gennaio 1931 –IX, n. 117 Approvazione del T.u. delle leggi sulla caccia, che faceva seguito alla legge 24 giugno 1923, n. 1420 (che aveva unificato le diverse leggi vigenti in varie regioni anche dopo l’unificazione nazionale) e abrogava tutte le altre nome vigenti in materia di caccia.
Quali erano i superiori interessi nazionali ? Erano la tutela e l’incremento della selvaggina stanziale.
Come si vede, attraverso il t.u. del 1931 il regìme si arrogava la potestà di organizzare la caccia e i cacciatori, così come aveva fatto con gli agricoltori (Confagricoltura), gli industriali (Confindustria), i commercianti (Confcommercio), gli artigiani (Confartigianato), ecc. Il segno dominante del fascismo in campo sociale ed economico non poteva essere più chiaro anche in campo venatorio.
Nello stesso decreto si fonda (o rifonda con personalità, compiti e finalità nuovi) la Federcaccia, l'unica associazione venatoria italiana. Infatti “i cittadini che abbiano ottenuto la licenza di caccia o di uccellagione ed i concessionari di bandite o riserve, fanno parte di diritto della Associazione per la durata della rispettiva licenza o concessione” (art. 82 comma 2). Ma il trattamento monopolistico di cui godeva Federcaccia quale organo unico rappresentativo di tutti i cacciatori muniti di licenza è finito a seguito delle sentenze della Corte cost. 26 giugno 1962 n. 69 e 15 maggio 1963 n. 71, che avevano fatto cessare l’obbligo di iscrizione dei cacciatori alla Federcaccia. Sulla scorta delle pronunce della Corte, infatti, a’sensi dell’art. 35 della legge 799 del 1967, “le associazioni venatorie sono libere” (libertà intesa come diritto positivo di associarsi e negativo di non associarsi).
L’ultimo atto di questa peculiare vicenda normativa (ma non solo: anche culturale) si consuma con l’esclusione della Federcaccia dal CONI, a seguito della quale cessa il carattere sportivo della Associazione e la Federcaccia assume i tratti di una associazione del tempo libero come tante altre. Essa, in altre parole, perde il suo statuto non soltanto di membro del CONI, ma anche di ente associato al CONI, con le conseguenze a tutti note.
La storia della caccia italiana e la collegata legislazione venatoria si identifica o, per lo meno, si intreccia in buona sostanza con quella della Federcaccia, per tutto il secolo scorso. La sua articolazione territoriale (che si estrinsecava all’origine nelle competenze della Federazione nazionale, e nelle filiazioni provinciali e locali) è la fedele versione associativa del sistema venatorio concepito dal regìme. Il punto è essenziale per comprendere quale potrà essere l'evolversi dell'associazionismo venatorio italiano, con particolare riferimento, ovviamente, alla principale associazione. Un associazionismo competitivo ed efficiente nei riguardi dell’attività venatoria, o meglio, faunistico-venatoria, e dei cacciatori (liberamente) associati. E se, da un lato, c’è una emergenza economica, che obbliga tutti a rivedere l'organizzazione e a razionalizzare i costi, dall’altro, si apre il delicato problema di individuare le linee portanti del riassetto.
Occorre per questo riferirsi alla connotazione storica che vede una sostanziale aderenza alla dislocazione delle competenze ordinamentali con specifico riguardo a quelle statali e provinciali (prima) e statali-regionali (poi). La Federcaccia nasce, infatti, nel 1931 in un ordinamento che accentrava nello Stato e specificamente nel Ministero dell’agricoltura ogni competenza in materia. Il t.u. n. 1016/39 ha, poi, attuato un decentramento amministrativo rinvigorendo i Comitati provinciali della caccia (istituiti con il dPR 10 giugno 1955, n. 987, in sostituzione delle Commissioni venatorie provinciali istituite con il decreto del 15 gennaio 1931 n. 177), che sono stati per decenni il fulcro della organizzazione venatoria in ambito locale. Nel corso della seconda metà dello scorso secolo, moltissimi dirigenti venatori si sono formati nei Comitati provinciali.
Nel 1967 si fa la riforma – la prima vera riforma post-fascista - della materia alla luce della Costituzione repubblicana. Dieci anni dopo, a seguito dei decreti di trasferimento delle competenze del 1972 e, soprattutto, del 1977 (con il fondamentale dPR 616) si attua, con la legge 968/77, il decentramento regionale che rappresenta il primo esempio organico di legislazione imperniata sul rapporto fra Stato e Regioni: rapporto che si concretizzava, secondo la legge Scelba del 10 febbraio 1953, n.62 e l’art. 117 della Costituzione, nella legge quadro di principi e nelle leggi attuative regionali nelle materie di competenza regionale. La caccia era, infatti, materia di competenza regionale e quindi governata, a livello di principi fondamentali, dalla legge dello Stato.
Alla legge 968 èseguita la legge 157/92: sono – entrambe- di iniziativa parlamentare e portano il marchio della Federcaccia, anche se fra i due atti normativi ci sono differenze essenziali. Ne cito una, fra le più rilevanti: nella legge 968 l’impianto venatorio era riconducibile essenzialmente al Ministero dell’Agricoltura (che, a questo scopo, aveva istituito dal 1923 una apposita Direzione Generale), con la legge 157 entra in scena il Ministero dell’Ambiente con il quale l’Agricoltura deve spartire o co-gestire le competenze. La mezzadria si è rivelata difficile, ma segna un effettivo sviluppo nella direzione ambientale della caccia, a fronte di una tendenza europea che ha inciso fortemente sulle legislazioni nazionali: anche sulla legislazione francese, nel cui Code Rural aveva concentrato le disposizioni sulla caccia. Attualmente la materia è saldamente in mano del Ministère de l’Environment, mentre nel Code Rural si annidano (ancora) le disposizioni concernenti il regime del diritto di caccia che, come è noto, è strettamente connesso con la proprietà del fondo, come lo era anche da noi prima della introduzione dell’art. 842 del Codice civile.
Quest’ultima disposizione ha comportato una autentica rivoluzione nell’assetto venatorio che ha finito con il favorire il processo di ambientalizzazione della caccia: se con la legge 968 si afferma il principio della proprietà statale indisponibile della fauna selvatica e si profila la caccia controllata dell’art. 10 ed un primo timido tentativo di pianificazione faunistico-venatoria, con la legge 157 si completa il processo con la previsione dei piani faunistico-venatori regionali e provinciali, degli ambiti territoriali di caccia e degli organismi di gestione, della opzione obbligatoria fra caccia vagante e caccia da appostamento, ecc...
In questo trend è fallito et pour cause il tentativo di inserire la caccia nel redigendo Codice agricolo, che non ha ancora visto la luce (se mai la vedrà) e dal quale il comitato redattore lo ha escluso
In corrispondenza con la regionalizzazione della caccia, la struttura associativa ha di conseguenza individuato nella propria organizzazione un livello appropriato per assecondare un processo (che pareva) inarrestabile: vale a dire la concentrazione nelle Regioni della materia e dei compiti più significativi, dalla gestione della fauna selvatica e più in generale delle risorse naturalistiche alla pianificazione faunistico-venatoria, passando per gli ambiti territoriali di caccia. La nuova organizzazione territoriale è stata tanto necessaria quanto artificiosa, perché – a mio sommesso avviso - non rispondente alle esigenze di una effettiva articolazione associativa. E tale rimane ancorchè, nel nuovo assetto dell’art. 117 Cost., la caccia non sia di competenza dello Stato, ma riconosciuta – nel silenzio della Costituzione - come competenza regionale residua.
L’esperienza recente dimostra che, rispetto al passato, si è sviluppata una linea di trasformazione della caccia da materia di sicura ascendenza agricola – come dimostra l’evoluzione normativa appena descritta - a materia eminentemente ambientale e, come tale, riconducibile alla competenza esclusiva dello Stato (art. 117 lettera s) Cost.). Lo Stato, in altre parole, si è ripreso la materia lasciando alle Regioni un sempre più ristretto margine di competenza e di iniziativa. Come dimostro subito.
L’evoluzione (o involuzione a seconda del punto di vista) porta a questo esito: il processo di regionalizzazione ha invertito la tendenza e lo Stato si va riappropriando della materia. Per questo parlo di deregionalizzazione della caccia. Alle Regioni è rimasta, bensì, la competenza per la pianificazione faunistico-venatoria e per i calendari venatori, ma tale potestà appare fortemente indebolita dalla politica, europea e nazionale, di individuazione delle aree protette (si pensi a Rete Natura 2000 e alle sue dinamiche e alla vasta rete di Parchi nazionali istituiti ex novo dalla legge 394/91, per non parlare delle aree protette regionali, che negli ultimi anni hanno conosciuto una accelerazione). Inoltre il controllo delle specie – con evidenti riflessi su quelle cacciabili e sui periodi di caccia – è sfuggito di mano alle Regioni.
La storia recente ha conosciuto sviluppi restrittivi, specialmente ad opera della della Corte Europea di Lussemburgo, nonché della Corte costituzionale, che hanno affermato, rispettivamente, il primato della legislazione europea (ed in particolare della direttiva 409/79) su quelle nazionali, e della legislazione nazionale imperniata sulla legge 157/92 rispetto a quelle regionale.
- Per la Corte CE la direttiva rappresenta il punto di ancoraggio e, al tempo stesso, il parametro di giudizio delle politiche nazionali e regionali sulla caccia. Punto alto, molto alto, rispetto al quale le legislazioni nazionali e regionali arrancano, manifestando significative carenze e subendo dure condanne. Ne fa fede anche l’ultima decisione della Corte CE del 15 luglio 2010 relativamente alla legge 157 e ad alcune leggi regionali (Abruzzo, Lazio, Lombardia, Toscana, Marche, Calabria, Emilia Romagna, Puglia). Nella sentenza la Corte rileva che la stessa legge italiana sulle aree protette n. 394/91 “non contiene alcun riferimento specifico alle considerazioni ornitologiche previste dall’art. 4 della direttiva 409” e ricorda che “la circostanza che uno Stato membro abbia affidato alle proprie regioni l’attuazione di direttive non può avere alcuna influenza sull’applicazione dell’art. 258 TFUE. Infatti, sebbene ogni Stato membro sia libero di ripartire come crede opportuno le competenze normative sul piano interno, tuttavia, a norma dell’art. 258 TFUE, esso resta il solo responsabile nei confronti dell’Unione, del rispetto degli obblighi derivanti dal diritto dell’Unione (vedi sentenza 10 giugno 2004, causa C-87/02, Commissione/Italia)”.
Non sfugge pertanto la negazione della personalità giuridica internazionale delle Regioni di tal che, anche a questo riguardo, è lo Stato l’interlocutore diretto e unico della UE.
- Per la Corte italiana, il compito è diverso (rispetto a quello europeo), ma non meno incisivo. Essa ha individuato i contenuti minimi irrinunciabili, detti standards minimi (ed) uniformi di tutela, unificando sotto la regìa europea e nazionale gli obiettivi di tutela della fauna selvatica, degli habitat naturali e delle zone protette. Si vedano – ad esempio - le sentenze 405 del 2008 e n. 272 del 2009. Quest’ultima, in particolare, a proposito del territorio protetto (parchi regionali) e della stagione venatoria, dice: “questa Corte ha più volte sottolineato che “la disciplina statale che delimita il periodo venatorio …è stata ascritta al novero delle misure indispensabili per assicurare la sopravvivenza e la riproduzione delle specie cacciabili, rientrando in quel nucleo minimo di salvaguardia della fauna selvatica ritenuto vincolante anche per le Regioni speciali e le Province autonome” (sent.n.165 del 2009). Parimenti “le disposizioni legislative statali che individuano le specie cacciabili “hanno carattere di norme fondamentali di riforma economico-sociale” (sentenza n. 227 del 2003 che richiama la sentenza n. 323 del 1998)”.
La individuazione, di volta in volta, degli standards minimi (e) uniformi ha messo in crisi il tentativo delle Regioni di affrancarsi dalla tutela statale. La Corte ormai considera alla stregua di standard immodificabili non soltanto i periodi di caccia, ma anche la composizione degli organismi direttivi degli ATC (sent.268 del 2010); ed ha ritenuto illegittimo il prolungamento della giornata di caccia di un’ora dopo il tramonto anche per gli acquatici da appostamento perché non rispetterebbe gli standards di tutela uniforme dettati dall’art. 18 della l.157 (sent.391 del 2005); ha dichiarato illegittimo “il prolungamento della stagione venatoria per determinate specie di animali nel periodo dal 21 febbraio al 21 marzo” violando così gli standards minimi uniformi di tutela della fauna nei quali rientrano, da un lato, l’elencazione delle specie cacciabili e, dall’altro, la disciplina delle modalità di caccia” (sent.313 del 2006); ha castigato la Regione Lombardia che aveva previsto la possibilità di rimuovere l’anellino inamovibile dei richiami vivi con la tenuta di apposita documentazione perché la fissazione di standards minimi e uniformi di tutela della fauna spetta in via esclusiva allo Stato (sent.n.441 del 2006). Mi fermo qui.
In tutti i casi appena menzionati il parametro di riferimento è, appunto, l’art.117, secondo comma, lettera s) della Costituzione. Ne deriva che lo Stato, attraverso una interpretazione estensiva della competenza esclusiva in campo ambientale, si è riappropriato della materia. Si profilano tempi duri per l’autonomia regionale.
Veniamo alle organizzazioni dei cacciatori. Se un associazione venatoria coltiva per statuto l’obiettivo di tutelare gli interessi dei cacciatori su scala nazionale, mi viene spontaneo pensare che la partita della caccia continui ad essere consegnata alla sua responsabilità e alla sua iniziativa. E’il caso della Federcaccia.
La presenza di una struttura associativa ad ogni livello operativo è essenziale se correlata all’ente dotato di poteri pianificatori e programmatori incisivi. Questo ente è sicuramente la Provincia in quanto titolare per delega regionale della potestà pianificatoria e, in qualche misura, anche programmatoria. Le leggi regionali hanno individuato in questo livello intermedio il referente amministrativo più titolato a svolgere la funzione di raccordo con la Regione. E pertanto il livello associativo provinciale mantiene, anzi rafforza, la sua funzione: la vedo nella veste di attenta e responsabile suggeritrice delle scelte pianificatorie e programmatorie territoriali, ma anche referente diretto delle altre realtà locali.
Giudico non irrilevante anche il livello comunale, ma per ragioni diverse, essenzialmente associative, sto per dire identitarie. L’incontro dei cacciatori nella sezione comunale non ha perso importanza anche in considerazione della sua capillarità territoriale, pur se ragioni organizzative ed economiche possono suggerire sezioni intercomunali. Non Vi sembri blasfemo, ma la Chiesa cattolica si è data un assetto territoriale nuovo con le unità pastorali: più parrocchie rette da un medesimo parroco, più comunità ricondotte alla guida di un unico pastore.
La mia lunga frequentazione della Federcaccia mi fa dire che il futuro della caccia italiana e quindi del suo livello associativo sarà condizionato dalla immagine – degli obiettivi, dei compiti, dei numeri, della cultura - che riuscirà a proiettare all’esterno. E’stato così anche nel passato, benché in condizioni diverse. E non alludo soltanto al periodo in cui il monopolio associativo fu esercitato da Federcaccia, ma anche a quelli posteriori quando la stessa associazione diresse il movimento venatorio affrontando dure battaglie con gli ambientalisti e gli animalisti. Lo scontro è ancora in atto, ma in condizioni svantaggiate, se non di minorità culturale, non essendo riuscito il mondo della caccia a piazzare una idea di sé diversa da quella costruita dalla martellante propaganda ambientalista nei riguardi di una opinione pubblica sprovvista di autonomi mezzi di conoscenza del fenomeno faunistico-venatorio e fuorviata da superficiali e emotive campagne diffamatorie.
Nello sforzo di riqualificare la presenza di un associazionismo riorganizzato mi paiono essenziali:
a) la capacità dei suoi vertici di rappresentare efficacemente i cacciatori nelle più alte istanze nazionali sia a livello politico sia a livello amministrativo-ministeriale.
b) un confronto aperto con tutte le realtà operanti sul territorio. Alle rappresentanze dei cacciatori è toccato, per legge, il compito di operare direttamente sul territorio gestendo gli A.T.C. Questa esperienza è lungi dall’essere compiuta: chè anzi si è assistito alla progressiva dequalificazione degli ambiti e conseguentemente alla trasformazione del ruolo dei cacciatori da autentici tutori e gestori del territorio agro-silvo-pastorale come disegnato dalla legge 157 a utilizzatori spensierati di fauna selvatica.
c) la collaborazione con il mondo agricolo verso traguardi condivisi. Voglio ricordare che questo mondo sta vivendo una trasformazione culturale, sociale ed economica quale non si era conosciuta prima d’ora: è in gioco la stessa nozione di attività agricola. La strumentazione normativa europea punta a traguardi ambiziosi nel campo della tutela dell’ambiente e del territorio, cioè dell’habitat in cui vive e opera l’agricoltore. La tutela è elevata a funzione tipicamente agricola: non più accessoria o accidentale, ma primaria ed essenziale. Ebbene: una caccia intesa in senso ambientale e produttivo (si caccia la selvaggina che c’è e/o che si produce mediante opportuni strumenti di gestione del territorio) può dare ai cacciatori una legittimazione nuova anche nei riguardi della opinione pubblica.
Le conclusioni della recentissima indagine condotta da Astraricerche su gli italiani e la caccia, rovesciano il giudizio negativo imperversante. Sono significativi – e per certi versi sorprendenti - i dati della indagine: il 47% degli italiani 18-80enni è – con maggiore o minore intensità – ostile all’attività venatoria, mentre i filo-caccia costituiscono una esigua maggioranza: senza riserve il 22% del campione (con prevalenza di maschi, anche giovani) ma con il “tipo” di maggioranza relativa (33%: al di sopra della media maschile, men che 45enne, con scolarità e reddito medi, moderato e cioè estraneo a posizioni estreme) – quello decisivo – favorevole alla caccia solo se normata, limitata, responsabile e sostenibile. E’essenzialmente un problema di comunicazione.
Ma non solo.
Le conclusioni di AstraRicerche, che faccio mie, sono queste: “Dunque la partita pro o contro la caccia si gioca in Italia su questo cluster peraltro destinato a crescere qualora si estenda e si intensifichi l’informazione sugli attuali vincoli dell’attività venatoria nel Bel Paese. In altre parole, se la partita viene giocata fra “fondamentalisti” anticaccia e quelli “filo-caccia”, essa è e sarà sempre vinta dai primi. Se il mondo venatorio, invece, saprà conquistare consensi all’idea e alla pratica della caccia sostenibile, esso potrà godere di un sostegno maggioritario e sempre più esteso all’interno della popolazione”
Traduco in parole mie: fin tanto che le associazioni venatorie faranno a gara per rompere i delicati equilibri introdotti dalla 157, come dimostra la corsa dei 18 disegni di legge depositati all’inizio di legislatura; se l’obiettivo – costi quel che costi – è l’ottenimento di cacce in deroga come avviene in alcune Regioni del Nord, a dispetto dei verdetti punitivi della giurisprudenza europea e nazionale e contro ogni logica di moderazione; se il cacciatore non saprà condividere con i produttori agricoli gli obiettivi di una razionale gestione del territorio in funzione del mantenimento di adeguati equilibri numerici della fauna, migratrice e non; il futuro della caccia e dei cacciatori è incerto.
Toccherà pertanto a un associazionismo rinnovato mantenere la caccia nei binari della ragionevolezza, traghettando il mondo venatorio verso obiettivi sostenibili.