Negli ultimi quattro anni il National Geographic e l'istituto di ricerca GlobeScan, hanno scandagliato abitudini e consumi di 17 paesi sparsi in tutto il mondo interpellando 17 mila cittadini sulla loro attenzione verso la sostenibilità ambientale e monitorando i vari cambiamenti dei loro consumi. Quello che è emerso è molto significativo: chi più inquina, di norma, meno se ne rende conto e più ha fiducia nella possibilità di migliorare lo stato del pianeta. Nonostante l'utilizzo di fonti altamente inquinanti nei paesi in via di sviluppo (anche in Cina il 40% delle case si riscalda ancora a carbone), sono i cittadini di questi stati a comportarsi meglio: si spostano utilizzando mezzi pubblici o in bicicletta, hanno auto più modeste, meno vizi e guardano poca tv. Ma a differenza dei cittadini occidentali sono loro i più scettici sulla possibilità di raggiungere un equilibrio davvero sostenibile.
A sorpresa, in testa alla classifica dei cittadini più coscienziosi - almeno così dicono i loro comportamenti - ci sono quelli di India, Cina e Brasile. Bocciati invece praticamente su ogni fronte gli statunitensi: consumano cibo spazzatura, si spostano su inquinantissimi Suv e hanno case super riscaldate in inverno e super raffreddate in estate da dispendiosi condizionatori. Altro tasto dolente sono i consumi alimentari, la ricerca ha preso in esame l'uso di alimenti di importazione, l'abitudine di mangiare carne e quella di consumare acqua in bottiglie di plastica. Male anche qui gli americani, seguiti a ruota da tutti i paesi del mondo industrializzato tra cui canadesi, giapponesi, francesi (l'Italia non è stata presa in esame ma probabilmente non avrebbe ottenuto risultati migliori; chi volesse sapere se il suo stile di vita è sostenibile, può misurarsi con il calcolatore di sostenibilità, può accedere a questo indirizzo web: http://environment.nationalgeographic.com/environment/greendex/calculator/.).
Ma la situazione non è così disastrosa: un dato positivo c'è: nonostante la scarsa attenzione generalizzata per il nostro impatto sul pianeta, è stato registrato un certo miglioramento dal 2010 ad oggi, probabilmente dovuto alla riduzione “forzata” dei consumi a causa della crisi economica. Ancora tanta è la strada da fare. Il recente boom economico di paesi come India e Cina ha dato una violenta accellerata al problema sostenibilità: milioni di persone uscite dalla povertà reclamano la loro fettina di carne, il che comporta la continua conversione di foreste in pascoli e IN coltivazioni per il foraggio. Per riappacificarci con la natura, basterebbe adottare alcuni accorgimenti ecologici (pannelli solari, riduttori di flusso applicati sui rubinetti, consumo di cibi a km zero, eccetera) e stili di vita più simili a quelli di un paio di generazioni fa. Toccherà farlo per primi a noi occidentali.
Tra i moderni cittadini rurali già si contano le milioni di persone che il concetto di consumo sostenibile lo vivono ogni giorno, naturalmente. Occuparsi da vicino delle varie fasi di vita di flora e fauna, anche tramite ripopolamenti e interventi riequilibratori nei diversi habitat, nel caso del cacciatore, rende anche consumatori attenti e preparati. Una volta compiuto il suo ciclo di vita il nostro selvatico costituirà un pasto totalmente eco-sostenibile, visto che alla fine dei conti per produrlo madre natura non avrà sprecato nemmeno una goccia d'acqua. Se prelevata secondo legge il consumo della selvaggina si attiene a rigorosi schemi di effettiva disponibilità in natura, al netto di mortalità naturale e di esigenze ecosistemiche. Energie altrimenti perse insomma e, se non controllate, in un sistema antropizzato come il nostro, addirittura problematiche. Basta dare una scorsa alle notizie pubblicate non solo su bighunter.it, ma su giornali e agenzie stampa di tutta Italia, che all'emergenza cinghiali hanno dedicato pagine e pagine di lamentele: si è posto l'accento quasi esclusivamente sull'aspetto danni e non si è considerato di contro che questa popolazione, ben amministrata, costituisce anche una grande risorsa economica.
Sono argomenti dibattuti da diverso tempo, vero. Ma proprio in questo particolare periodo storico, non varrebbe forse la pena di spendere qualche energia in più per rivendicare questo enorme bellissimo aspetto di una passione che non è, una volta tanto, solo fine a se stessa? Una simile consapevolezza servirebbe a ribadire che andare a caccia non è solo un hobby ma uno stile di vita intimamente legato ad un consumo alternativo di carne, che giova alla natura e difende le foreste da un degrado che sembra inarrestabile. Vi sembra poco?
Lo studio di National Geographic dovrebbe essere un monito per le associazioni ambientaliste italiane, che finora hanno sottovalutato i veri problemi, facendo da foglia di fico ad una situazione che negli ultimi decenni non ha fatto altro che peggiorare. Si sono preoccupate troppo di osteggiare la caccia (salvo poi dover riconoscere spesso e volentieri che non costituisce un pericolo per nessuna specie selvatica) e di “allevare” generazioni di animalisti, dedicando poche energie alle questioni reali.
Il risultato è che tutti sanno ogni particolare di Green Hill e dei suoi teneri beagle ma tutto sommato se vi sono industrie che distribuiscono veleni fin dalla prima poppata (si leggano i dati relativi al latte materno delle mamme che vivono a Taranto), violando i parametri europei o se ciò che finisce nel nostro piatto è pieno di sostanze tossiche responsabili della stragrande perdita di biodiversità nel nostro paese, poco importa. L'importante è trovare una casa ai cani sottratti alla vivisezione e dire, costantemente, anche se non è vero, che a causa della caccia si pagheranno milioni di euro di multe per la violazione delle direttive europee. L'ultima perla l'abbiamo tutti riscontrata sul Corriere della Sera, che in un sondaggio – nel disprezzo delle più elementari regole deontologiche - ha di fatto perseguito il fine di discreditare la caccia, nel momento in cui si fa credere che l'Italia è costretta non solo a finanziare la caccia (considerazione assolutamente priva di qualsiasi fondamento: il Fisco non fa altro che incassare, per legge, un piccolo quid che, sempre per legge deve ristornare alle associazioni venatorie per fini d'istituto, anch'essi per legge codificati), ma anche a pagare milioni di euro di multa per le infrazioni alla direttiva UE. Affermazione anche questa che non corrisponde assolutamente a verità. Ma nell'ignoranza generale si può dire di tutto e di più. Soprattutto quando si vogliono perseguire obiettivi “telefonati” da una ben orchestrata campagna denigratoria che tende a far dimenticare le migliaia di omissioni e prevaricazioni, per non dire di peggio, a cui si assiste ormai quotidianamente in questo sbrindellato Paese.
C.F.