C'era una volta la natura. Ma si parla di quando Berta ancora non filava. Nel senso che la pastorizia era ancora di là da venire. E, pensa un po', nel bene e nel male, l'uomo, che aveva una massa cerebrale come la nostra, andava a caccia. La donna, che non filava, stava a casa, che se non era una grotta, era una tenda coperta di pelli o una capanna, che magari aveva come assi portanti zanne di mammut e costole di balena. Stava a casa, la donna, per regola di natura. La caccia non faceva per lei, troppi rischi. Il suo ruolo era troppo prezioso. Doveva allattare e far crescere in salute la progenie. Non una storia gender, ma un bisogno primario, a cui l'uomo non era in grado di assolvere. In compenso, alla stregua dei primati, l'uomo faticava per portare a casa la carne, fonte primaria di proteine nobili e, appunto, di salute. Allo stesso tempo, l'uomo doveva primeggiare: nella caccia. Più carne era capace di offrire alla donna (e alla prole) e meglio consolidava il legame della famiglia. Da single, questa sua abilità/capacita gli consentiva maggiori successi nel corteggiamento, tutte le ragazzine se lo filavano, di solito era in grado di dare un futuro ricco ai propri geni.
In tutto questo, la differenza la faceva appunto...la natura. Prima di tutto la latitudine. Un clima temperato favoriva messi (spontanee) in abbondanza, che consentivano ricche presenze di animali selvatici. E cacciagione, di conseguenza. In pratica il paradiso terrestre, che tuttavia dipendeva da cause esterne. Imponderabili. Forze imputabili al sovrannaturale, a cui ci si doveva rivolgere, implorando, consumando sacrifici, ritualizzando i comportamenti.
La famiglia diventò clan, il clan diventò tribù, la tribù diventò nazione, popolo. Nel frattempo, ma si parla di decine di migliaia di anni, l'ingegno dell'uomo e della donna (e della prole che grazie all'esuberanza ormonale e all'osservazione delle esperienze pregresse dette vita a nuove intuizioni) aiutò a disvelare e prendere possesso delle magie della natura, il fuoco soprattutto, perfezionò le tante manualità, consolidò i mestieri: strumenti speciali, recipienti, indumenti. Poi arrivò la domesticazione. Greggi e armenti, che tuttavia comportavano ancora erratismi alla ricerca dei pascoli. Una rivoluzione che precluse, dicono una decina di migliaia di anni fa e forse più (recenti scoperte nella Mezzaluna Fertile ne anticipano la data a 23mila anni fa), a un'altra e più grande rivoluzione: l'agricoltura. Dall'allevamento degli animali all'allevamento...dei cereali. E i frutti, i legumi...
In pratica, da allora, i nostri antenati si stabilizzano in un luogo, diventano sedentari, dopo la proprietà degli strumenti e degli animali "domestici" (cane compreso) nasce la "proprietà della terra". E la caccia, da attività primaria viene declassata ad attività secondaria, sempre più codificata, ritualizzata, attribuita per classi, per censo, per ruoli.
Da allora, la selvaggina si lega sempre più indissolubilmente alle colture agricole e forestali. E alla pastorizia. Dipende, sia la stanziale sia la migratoria, da ciò che l'uomo coltiva o alleva. Almeno nella fascia fertile, che diviene sempre più popolata. La caccia di conseguenza è di competenza del titolare del fondo agricolo. Proprietario terriero, affittuario, contadino. I quali intelligentemente ne raccolgono gli interessi. Anche il borghese che avanza ne gode, sia nella tavola, sia nel diletto: praticando, come ospite o a pagamento, quello che gli anglosassoni definiscono il country sport per eccellenza. La caccia moderna. E questa, proprio questa non è altro che l'attività che a suo tempo praticava Tutankhamon, ma anche Nimrod, Ulisse, Federico II, Lorenzo de' Medici, Vittorio Emanuele II, Roosevelt. Tutta gente che non aveva bisogno di andare a caccia per mangiare carne.
La bontà delle carni, ovviamente, ha condizionato l'evoluzione e la presenza dei diversi tipi di cacciagione. L'ha in qualche modo resa preziosa, sacra. Ma in ogni caso, sempre più strettamente imparentata con l'agricoltura.
L'aumento della popolazione pone sfide sempre più ardite anche per la produzione di alimenti. Carne, cereali, altri prodotti agricoli. Cacciagione. Fino a quando, in epoche recenti, recentissime, in percentuali dello zero virgola rispetto all'età storica dell'homo sapiens sapiens (che data a 35mila anni fa), l'industrializzazione e la post-industrializzazione stravolgono ancora una volta questo rapporto.
Si punta a produrre derrate alimentari e carne domestica "intensivamente", si adoperano prodotti per velocizzare i processi e aumentare la resa. Le vecchie pratiche agricole vanno a farsi benedire, e con esse anche la selvaggina. Da noi, per esempio, la starna scompare. Ma anche i passeri: vittime di grani "trattati". Aumentando gli oliveti, aumentano i tordi. In terra di Albione il colombaccio viene considerato "nocivo": devasta le piantagioni di piselli. In Toscana, il cinghiale e altri ungulati fanno danni, mentre il cambiamento di tipo di produzione dei risi in padania mette a rischio i beccaccini. Non parliamo di ciò che succede in altri continenti. In Africa si addita al pubblico ludibrio il cacciatore bianco, mentre i big five soffrono di trasformazioni fondiarie, distruzione degli habitat, miseria di stato che porta con sé un bracconaggio quasi istituzionalizzato.
Insomma: il progresso incessante, che ha attraversato i millenni, ha portato benessere (sempre più per pochi) stravolto e distrutto i territori, rivoluzionato l'agricoltura, marginalizzato la caccia.
Qualcuno mi dirà: ma cosa ci racconti? Son tutte cose che sappiamo. Non ci far perdere tempo, per piacere. Si, è vero: son tutte cose note. Stranote. Ma, purtroppo, siamo sempre in meno a rendercene conto. Il quotidiano, il contingente, ci porta a tenere in evidenza una realtà artefatta. Che – chi dice per fortuna – ci illude di vivere in un mondo amico, a nostra dimensione, che ha annullato gli affanni, le ingiustizie, la fatica. Tutto vero? Mah?!. Ne siamo proprio sicuri?
Norberto Palazzi
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