Leggo un recente intervento sulla caccia della Consigliera regionale del Friuli Venezia Giulia Del Zovo del M5S, le sue lezioni di morale, i tanti commenti volgari dei suoi sostenitori e mi viene in mente la prospettiva della vittima alla quale non importa nulla di chi sia il suo carnefice, se cacciatore o dolce gattino.
Hemingway si dissetò di caccia raccontando le sue emozioni fino a raccogliere il premio Nobel e nessuno pensò di definirlo di pessimo gusto; Faulkner impresse l’immagine della caccia negli occhi di un bambino di tredici anni e con lui raccolse il premio Nobel. Nessuno ebbe l’ardire di apostrofarlo “ignobile e vergognoso”. Rigoni Stern, compianto da tutti, intellettuali, politici, giornalisti scrisse quasi soltanto di caccia e nessuno ebbe mai il coraggio di scolpire la sua storia come “cosa grave e brutta”. Mocchiutti, straordinario pittore del novecento accompagnò suo nonno “bracconiere” nelle notti e nei campi friulani e lì plasmò la sua sensibilità e la sua arte con le precise forme delle civette, delle lepri, dei fucili e dei colpi nello scuro. Nessuno ha mai creduto che le sue opere dovessero essere bruciate nei roghi dell’inquisizione del terzo millennio.
Gli uccellatori come i pescatori, i cacciatori, gli agricoltori, gli allevatori e gli uomini legati alla terra, hanno tutti in comune, unitamente alla consapevolezza delle proprie passioni, il bisogno della natura e la necessità imprescindibile di preservare il territorio perché dello stesso sono i primi ed autentici fruitori. Negli ultimi anni, purtroppo hanno anche in comune le difficoltà per una società stravolta, una società dove il tempo non si conta più con la cadenza delle stagioni ma con le aperture di borsa ed i suoi listini, in cui gli odori non sono più quelli dei campi, ma quelli che si acquistano in profumeria, in cui la terra non è più quella madre che ci nutre ma ciò che sporca le strade e le mani.
L’ambiente, il territorio e la fauna non sono più elementi del reale contesto in cui si vive, bensì l’astratta immagine di un dogma con il quale riempire il contenitore di un’apparente coscienza ambientale.
Si è giunti all’assurdo per cui picchiare un cane si fa comportamento gravissimo (delitto) punibile non diversamente che se fosse stato picchiato un uomo, ma proprio quello stesso cane non può frequentare una spiaggia o entrare in un ristorante, perché i suoi escrementi, nel primo caso o il suo odore nel secondo, sono quelli di una bestia intutelabile e sgradita.
La cultura contadina, il vivere paesano, così come l’uccellagione, la pesca, l’agricoltura, gli animali e la terra sono componenti, nel loro essere reale, sempre più distanti dalla “società consumistica” e sempre più distorte nella ricostruzione iconoclastica dell’immaginario collettivo.
Il pollo non è ciò che vive e razzola nelle aie, bensì quel prodotto rosa incelofanato che si trova nelle scansie di un negozio di passeggio. E’ così che il cane non è più un animale che abbaia ed uccide le prede nel rimando genetico della volpe e del lupo, bensì il suo simulacro, quello che assume, -nella più folle delle rappresentazioni - languidi interroganti occhi di bimbo.
L’uccellatore non è più colui che conscio ed insieme partecipe di quel dramma che è la vita e la morte (che peraltro riguarda ogni specie ogni giorno) insegue una propria emozione complessa ma naturale ed antica, bensì un deplorevole cittadino che con prepotenza si appropria del patrimonio pubblico e per sollazzo cattura ed uccide tutto ciò che si muove.
In questo disordine culturale, chiunque abbia un pensiero, dal più sciocco al più intelligente, ha spazio mediatico per esprimerlo senza alcun pudure e quel che è peggio senza che nessuno, giornalista o lettore, si scandalizzi di quanto viene scritto o mostrato.
Ricordo anni fa una manifestazione di ambientalisti che mi ha colpito in modo particolare per un cartello sul quale c’era scritto “cacciatori sparatevi fra di voi”, e quel cartello mi ha fatto tornare alla memoria una frase detta da un signora di Pordenone intervenuta telefonicamente ad una trasmissione di Telefriuli che rivolgendosi al sottoscritto disse “le auguro di poter sparare ai suoi figli” e quella frase mi ha ricordato le azioni delittuose di alcuni personaggi disturbati che hanno messo a fuoco e ripetutamente danneggiato un ristorante responsabile solo di chiamarsi “al cacciatore” e quelle azioni mi hanno ricordato altre vicende ed altri reati.
Non si scopre certo ora che la nostra società sta subendo una deriva pericolosa, nella quale l’educazione, la cultura e la sensibilità lasciano sempre più di frequente il passo al rancore, alla violenza, alla demagogia populista ed alla profonda ignoranza, ma devo osservare che nei confronti della caccia, o meglio nei confronti degli uomini che praticano la caccia, sempre meno sono le persone che cercano di costruire degli argini di normalità.
Il valore della vita di un animale è nell’immaginario collettivo un valore più grande della vita di un uomo al punto da rivendicare la sopravvivenza di un capriolo augurando la morte di un individuo.
Qualcuno potrebbe opinare che i casi appena citati siano estremi gesti che non rappresentano la voce ambientalista o (Grillina) quella della società civile, ma allora, se così fosse, perché nessuno li ha stigmatizzati, condannati ed espulsi dalla scena pubblica? Perché tutti i giornali hanno consentito che quelle immagini e quelle frasi fossero ripetutamente esposte ed impresse nell’immaginario collettivo ?
Nessuno si è scandalizzato, nessuno si è sentito offeso e nessuno si è sentito violato nella sua sensibilità.
Che pochi, poi, ricordino che la caccia è stata la vita di personaggi riconosciuti univocalmente come straordinari oltre che patrimonio dell’umanità è cosa evidente ed in fondo ineluttabile, data la trascuratezza culturale nella quale sta cadendo la società; che poche persone abbiano mantenuto capacità critica ed equilibrio nell’affrontare le vicende che accadono è cosa ancora più evidente; ma che nel pensare diffuso si sia giunti a sostenere con favore azioni rilevanti da un punto di vista penale e quindi cariche di evidente disvalore sociale anche da parte di soggetti investiti di cariche pubbliche, è deriva assolutamente intollerabile.
Bisogna comprendere e farsi ragione consapevole, da parte di tutti, politici, intellettuali, amministratori o semplici cittadini che il non reagire o il mantenere indifferenza di fronte a tanta assurdità, anche se si discute di un argomento all’apparenza marginale come la caccia, significa consentire l’apertura di una ferita indelebile nello scudo sociale rappresentato dai valori fondanti il vivere democratico, civile e culturale del nostro paese.
Quella ferita oggi è talmente viva e sanguinolenta da consentire ad un autorevole esponente invitato in una trasmissione televisiva a diffusione nazionale, di affermare, senza pudore alcuno e nell’insensibilità generale (colloquiando di uno dei tanti conflitti esistenti nel mondo) che “il numero dei morti non è e non è mai stato un argomento politico”.
Ora se è questo ciò che noi cacciatori dobbiamo affrontare, se è questo odio, questa stupidità e questa irrazionalità (in fondo pericolosa per tutti) il nostro attuale contraddittore sociale, allora abbiamo il dovere di scandalizzarci, abbiamo il dovere civico di difendere la nostra passione e di difendere il nostro modo di viverla poiché è anche uno dei modi possibile che abbiamo per difendere i valori fondanti del vivere democratico, civile e culturale del nostro paese.
Paolo Viezzi