Parlare seriemente della caccia in Italia, dei suoi problemi, della sua scarsa accettazione, del suo futuro... è molto difficile. Anche perché la caccia in Italia è fatta di tantissime realtà, usi venatori, mentalità, situazioni faunistiche, diversissime tra loro.
Il tema, in ogni caso, meriterebbe un’analisi davvero approfondita, studi, e progetti concreti. E mi chiedo anche perché fino ad oggi nulla o quasi sia stato fatto in proposito. Quelli che propongo qui, in un testo inevitabilmente lungo, sono solo alcuni spunti buttati lì in un ferragosto di piogge autunnali.
Una cosa è certa, in Italia l’immagine della caccia, l’idea che la gente comune ne ha, è in genere negativa. E, seppure pensieri e movimenti anticaccia esistano in tutto il mondo, in pochi luoghi l’attività venatoria è così malvista “a pelle”e osteggiata.
Eppure i presupposti per una caccia “accettabile” ci sarebbero tutti: la caccia è democratica, accessibile a chiunque quasi gratis (pressoché un unicum nel panorama europeo), l’Italia gode di una varietà di ambienti naturali, anche abbastanza conservati, difficile da eguagliare. E la fauna, seppur con le solite enormi differenze locali, non se la passa male. Infine, va detto che gli italiani non brillano certo per consapevolezza e sensibilità ambientale, come la cementificazione diffusa o la gestione dei rifiuti insegnano. Allora, perché ci odiano? Colpa degli animalisti? Colpa dei giornalisti? Colpa dei politici?
O colpa anche dei cacciatori? Che non hanno saputo rapportarsi in modo positivo con il resto della società. Io, che non amo scaricare ad altri le mie responsabilità, propendo per quest’ultima spiegazione.
I peccati originali
In Italia, dove la cultura è eminentemente “umanistica” (e forse “iperantropocentrica”), fra le persone comuni la conoscenza della natura e la sensibilità ambientale sono carenti, decisamente meno evolute che in altri paesi europei. È un problema trasversale, che riguarda tutte le componenti della società: animalisti e cacciatori compresi. Questo ha portato a scelte rozze e rovinose: “parcomania” da una parte, devastazione del territorio dall’altra. Per noi cacciatori ha significato spesso chiusura della caccia (senza curarsi del resto) nella tal zona o alla tal specie: una presunta soluzione a costo quasi zero, che accontenta l’opinione pubblica e spesso maschera incompetenza o mancata volontà di affrontare i problemi ambientali in modo serio.
Questa superficialità è antica, e lo scarso interesse per la natura è radicato anche nella storia giuridica della fauna italiana: prima res nullius (roba di nessuno) poi res communitatis (roba di tutti). Ma in Italia la distinzione fra cosa di nessuno e cosa di tutti spesso è labile...
La caccia è stata storicamente praticata in modo molto libero (eccessivamente libero) e poteva anche andar bene fintanto che i cacciatori erano pochi, non avevano mezzi per spostarsi ed erano parte dell’ambiente in cui agivano. Cioè fino agli anni ’60, quelli del boom economico del secolo scorso, quando tantissimi possono d’un tratto acquistare un fucile, avere un auto e, conseguita una licenza con esame pro forma, fare quasi ciò che vogliono e dove vogliono. Qui nasce la caccia consumistica e diventa popolare anche la terribile concezione di caccia intesa come “sport”.
Per la fauna selvatica, ma anche per i cacciatori e la caccia, è un passaggio devastante. Ed è qui che, credo, abbiano origine gran parte delle conflittualità fra cacciatori e società italiana tuttora irrisolte.
Altre conflittualità attuali: danni da selvaggina
Ai conflitti ideologici ora si è poi aggiunto un elemento di frizione concreto: i danni da selvaggina. In Europa (come si ama dire oggi) la questione è assai più semplice. Chi possiede un terreno o vi esercita la caccia o vende il diritto di esercitarla. I danni da selvaggina sono pagati, direttamente o indirettamente, dai cacciatori. Per cui la conflittualità è risolta alla radice. E la fauna selvatica è una vera risorsa che integra il reddito agricolo, a volte in modo determinante. Nello stivale invece il rapporto cacciatori-selvaggina-agricoltura è sempre mediato e ciò complica le cose. Al momento in Italia le tensioni con il mondo agricolo emergono, ma è solo la punta di un iceberg.
La fauna come risorsa
La fauna selvatica non può essere concepita come un giocattolo (dai cacciatori) né sentita come un problema (dagli agricoltori). La fauna selvatica è - sotto il profilo naturalistico, estetico, ricreativo, venatorio ed economico - una risorsa. Per la precisione una risorsa rinnovabile e, in Italia, un patrimonio di tutti. Che va gestito con intelligenza e responsabilità.
I cacciatori, se credibili e competenti, dovrebbero essere per definizione i primi protagonisti nella gestione. Se spesso non lo sono è anche perché non hanno dimostrato di meritarlo.
Noi siamo, o dovremmo essere, i primi ambientalisti. Perché l’ambiente e la fauna che lo abita sono il pane della nostra passione. Eppure al solo sentire la parola “ambientalista” molti cacciatori italiani si spaventano... o si incazzano. Il termine conservazione, che vuol dire banalmente amministrare un patrimonio perché rimanga anche in futuro, non è nemmeno compreso da alcuni dirigenti venatori, che lo leggono erroneamente come protezione e si spaventano. C’è molta strada da fare.
Cambiare marcia, per crescere
La strada, a mio avviso è una sola. Quella di una crescita qualitativa del mondo venatorio. I cacciatori italiani, pur con tutte le meritorie eccezioni, sono mediamente molto meno preparati dei colleghi europei, quantomeno se non si guarda solo all’Europa che fa comodo. E non mi riferisco alle mere tecniche venatorie, dove tanti eccellono, ma alle conoscenze zoologiche, ecologiche, etologiche nel loro complesso. Per conoscere le specie animali, non solo quelle cacciate e non solo in periodo di caccia, anche nelle loro relazioni reciproche e nel loro rapporto con il territorio che le ospita, stabilmente o periodicamente. Solo così si possono comprendere appieno le logiche e gli effetti del prelievo. Solo così si possono capire, o anche mettere in discussione per cambiarle, le regole. Nella consapevolezza che la natura e la fauna sono indispensabili alla caccia.
Un problema di coscienza
Il cacciatore con coscienza apprezza intimamente, è grato ed onora ciò che preleva. Tratta e consuma degnamente ciò che riceve, ma dimentica il carniere (una brutta parola che sa più di ciccia che di caccia) come primo motivo della pratica venatoria.
Oggi si va ed è ammissibile andare a caccia per vivere nella natura dei momenti appaganti: perché veri, unici e leali. Lo si può fare solo se si è in equilibrio, prima di tutto con sé stessi. Senza rinnegare il nostro ruolo di predatori, ma esercitandolo con assoluta consapevolezza. Predatori affamati di esperienze, sensazioni, emozioni. Non certo di facili prede. Gente che si sa dare dei limiti, etici prima che giuridici. Che inorridisce di fronte alle mille tortore in un giorno, o al “cacciatore” che si fa fotografare a cavalcioni del cervo.
Tutte le cacce hanno pari dignità? Una domanda mal posta
Il ritornello della pari dignità delle pratiche venatorie o quello della supposta “tradizionalità” risuonano spesso. Ma forse sarebbe ora di cambiare musica. Una cosa tradizionale, cioè fatta per lungo tempo, non è detto che sia buona. Altrimenti noi uomini vestiremmo ancora di pelli e non avremmo inventato la ruota. Dalle mie parti era antica tradizione, per esempio, cacciare le marmotte con trappole di legno e pietra, ma nessuno si sogna di rivendicare queste tradizione oggi. Tutto questo per dire che una caccia oggi è fattibile solo se risponde a criteri di sostenibilità faunistica (cioè è sopportabile dalla specie prelevata) e sostenibilità sociale (cioè è accettabile nella società).
Chi ama una caccia criticata e reclama “pari dignità” dovrà quindi lavorare in modo di garantire alla sua passione sostenibilità faunistica e sostenibilità sociale. Tutto il resto (polemiche, nostalgiche rievocazioni, proteste ecc.) sarà magari toccante, ma poco utile.
In questo senso, la amata e odiata “caccia di selezione”, ha un vantaggio su tutte le altre: è nata con obbiettivi gestionali. Anzi, gli stessi concetti di gestione faunistica sono stati inventati, alla fine dell’800, dai cacciatori “di selezione”. Ma anche alle altre pratiche venatorie è sufficiente basarsi su conoscenza delle specie, monitoraggio delle loro condizioni, programmazione e corretta applicazione del prelievo per recuperare questo svantaggio. E infatti così avviene in molti luoghi.
Cervo o tordo poco importa: tutto si può potenzialmente cacciare, purché secondo dei criteri razionali. Il passaggio fondamentale sta nel sostituire il concetto di dignità, alquanto astratto e soggettivo, con quello di sostenibilità, molto più misurabile, oggettivo e anche spendibile all’esterno (sostenibilità “sociale”).
Unità. Ma dopo una “pulizia etica”
Molto spesso si invoca poi un’unità di tutti i cacciatori, senza distinguo. Io invece credo in un’unità di tutti i cacciatori veri. Che devono isolare, denunciare, combattere per primi il bracconaggio (che danneggia prima di tutto noi) senza se e senza ma. Che devono affrancarsi dalla parte del mondo venatorio che non è disposta a rispettare le regole del gioco, che pensa ancora che una fucilata illecita sia una bravata o una furbata. Che devono eliminare quella zona grigia, fatta di compiacenza e omertà, superando così un altro grosso problema culturale. Facendo pulizia in casa nostra potremo confrontarci con gli altri da una posizione molto più solida.
Aprirsi al dialogo e condividere gli obbiettivi
La fauna non è solo nostra, è di tutti. Che piaccia o no, è così.
I cacciatori devono uscire dall’attuale posizione di “assediati” (che ad alcuni fa pure comodo) per dialogare con gli altri. Prima di tutto con gli ambientalisti e gli agricoltori. Discutere con gli animalisti radicali non ha molto senso, ma farlo con le associazioni ambientaliste è indispensabile. Se si riuscirà a superare i reciproci pregiudizi si potr�lavorare insieme sull’obbiettivo di fondo, che è importantissimo e comune: salvaguardare l’ambiente e la fauna, anche per gestirla e cacciarla. A molti sembrerà fantascienza, ma a livello locale ci sono già esperienze positive di dialogo e collaborazione fra ambientalisti e cacciatori.
Una sola associazione venatoria
Altro enorme problema della caccia in Italia e che i suoi praticanti sono divisi in una miriade di associazioni concorrenti, tutte più o meno etichettabili politicamente. Questa frammentazione, questa lottizzazione della caccia, fa bene solo a chi se ne approfitta. E ci sono personaggi che, solleticando il basso ventre o raccontando favole, hanno costruito intere carriere politiche sulla dabbenaggine dei cacciatori. In questo quadro, la deriva più totale è poi rappresentata dai “partiti dei cacciatori” che qua e là periodicamente si tenta di costituire.
I cacciatori hanno bisogno di una sola associazione, come è in tanti altri paesi e in due realtà italiane (Bolzano e Trento), che li rappresenti tutti - di destra, sinistra o centro che siano - per sostenere più efficacemente le loro istanze.
Far nascere una vera cultura venatoria
I cacciatori italiani conoscono benissimo e hanno sviluppato metodi efficaci per cacciare le specie più disparate. Possiedono quindi una buona tecnica venatoria, se intesa in senso stretto. Ma non hanno una tradizione, dei riti, dei simboli intorno ai quali ritrovarsi. Non hanno una vera cultura che li unisca, li identifichi e li rappresenti. Non esiste, se non in casi rari e specifici, un abbigliamento da cacciatore tradizionale, non si onora la preda, non ci si sono momenti canonici nei quali riflettere sul proprio operato.
E invece queste cose servono, eccome. Per avere e rafforzare un’ identità, per essere orgogliosi e per abituarsi ad avere rispetto.
Che rispetto ha della fauna chi trascina per strada un cinghiale morto, legato con una fune alla propria auto? Che rispetto ha di sé chi va a caccia vestito dei suoi peggiori stracci (ma con un fucile costoso in spalla)? Che rispetto ha, di sé e di tutti noi, chi va a caccia agghindato come un soldato di qualche corpo speciale? Eppure, per chi ha rispetto di sé è più facile ottenere rispetto dagli altri.
Io, per nascita ed educazione, appartengo alla cultura venatoria mitteleuropea, e non intendo certo inculcarla ai cacciatori di tutta Italia. Ma un’identità venatoria italiana, che non c’è, urge inventarla.
Le cose importanti da fare
A mio modo di vedere, la caccia avrà un domani se seguirà quello che ho definito il principio delle “3C”: Competenza, Coscienza e Comunicazione che, messe insieme, producono credibilità. Della competenza, da incrementare, e della coscienza, da nutrire, abbiamo già detto. La comunicazione è un terzo elemento chiave.
Che la comunicazione sia strategica per il futuro della caccia lo dico e scrivo da oltre 20 anni. Senza aver trovato grande ascolto, per la verità. Da qualche tempo però se ne parla. Sembra che il problema (da gestire assolutamente con progetti chiari e professionalità adeguate) sia più sentito. Speriamo in bene. Anche perché lo si affronta con diversi decenni di ritardo rispetto a chi la caccia la odia. Il nocciolo è trasformare l’immagine del cacciatore “nemico della fauna”, che oggi va per la maggiore, nell’immagine del cacciatore come “competente custode della fauna”. Ma i cacciatori devono prima di tutto esserlo.
Delle ipotesi per il futuro
Non essendo un profeta, non mi sento di annunciare quale sarà il futuro della caccia in Italia. Ma un paio di ipotesi si possono fare. Dubito che la caccia verrà abolita. Ma indubbiamente cambierà. Il rischio maggiore è che diventi una questione sempre più “privata”, gestita in Aziende, e quindi riservata a chi ha i soldi. I cacciatori sono mediamente vecchi (ma tutta la nostra società è “vecchia”) e immagino che diminuiranno, ma non lo reputo un grosso problema. Quelli che continueranno ad esercitare l’arte venatoria però dovranno essere necessariamente più ricchi: o ricchi in competenze, sensibilità e credibilità... o ricchi in moneta sonante. Quale delle due ricchezze sarà necessaria?
Dipende fondamentalmente da come sapranno cambiare i cacciatori. Da come sapranno evolvere, nella sostanza e nella forma, per rapportarsi meglio con la società che - anche se spesso i cacciatori fingono di non accorgersene - vive, si muove e pensa intorno a loro.