Sul documentario contro la caccia che la giornalista Margherita D’amico avrebbe cominciato a girare in questi giorni è scoppiato un vero e proprio tam-tam mediatico.
Noi aspettiamo con ansia di vedere il capolavoro della cinematografia animalista, anche se di questa opera “miliare” crediamo di sapere già molto.
Tanto per dire, sappiamo che sarà pieno zeppo di sangue; di cinghiali caricati sui cofani delle macchine; di fagiani o altri uccelli appesi ai laccioli; di gentaglia fuorilegge, in rigorosa tuta mimetica, che sparacchia vicino alle case, che invade i campi coltivati o lascia bossoli in terra.
Sappiamo che si parlerà diffusamente di archetti e di reti per l'uccellagione, ma senza dire che sono strumenti vietatissimi che nulla hanno a che vedere con la caccia moderna.
Sappiamo che saranno spacciati come “attività venatoria” stupidi atti vandalici e squallidi episodi di bracconaggio (non mancherà di sicuro il falco pecchiaiolo e la sciagurata decina di suoi sparatori) senza però specificare che di ben altri atti vandalici sono purtroppo pieni gli stadi ogni domenica. Sappiamo che si cercherà di dimostrare la pericolosità sociale della caccia e dei cacciatori. Magari conteggiando fra le vittime dell’attività venatoria, con cinismo e disinvoltura allarmanti, una decina di infarti, qualche incidente automobilistico e, tanto per arrotondare il numero, trasformando i feriti in morti e aggiungendo qualche povero suicida, che invece di aprire il gas o buttarsi dalla finestra, ha deciso di porre fine alla sua esistenza utilizzando la vecchia doppietta.
E così come siamo sicuri che verranno messi in mostra gli aspetti negativi della “caccia”, magari creandoli appositamente con l’utilizzazione di comparse ben truccate e compensate con una manciata di euro, siamo altrettanto certi che si tacerà, in tutto o in gran parte, sugli innumerevoli aspetti positivi di questa attività che molti autorevolissimi scienziati, di tutto il mondo ed europei (quelli senza pregiudizi ideologici, ovviamente) continuano a definire non solo utile ma in alcuni casi perfino indispensabile.
Sicuramente, l’opera d’arte della sensibile giornalista non racconterà che gli autori delle uccisioni di orsi e lupi in Abruzzo, sono stati individuati anche grazie al fondamentale aiuto dei cacciatori che, a dispetto delle frettolose e vergognose accuse mosse dai soliti noti, si sono subito messi a disposizione degli inquirenti, con il loro prezioso bagaglio di conoscenze ambientali e faunistiche.
Sappiamo che non si parlerà delle migliaia e migliaia di ettari di boschi salvati grazie al massiccio dispiegamento di cacciatori volontari a fianco del Corpo Forestale dello Stato, Vigili del Fuoco e Protezione Civile.
Sappiamo che si eviterà accuratamente di parlare di foraggiamento invernale (non solo finalizzato all’abbattimento) e fatto soprattutto nelle aree protette; che non si parlerà di censimenti o di interventi dissuasivi a salvaguardia delle colture.
Sappiamo che non ci sarà nemmeno un’immagine per mostrare, al sensibile pubblico animalista delle grandi metropoli, gli indescrivibili disastri originati dalle popolazioni di animali in numero sempre crescente, che utilizzano le cosiddette aree protette come affollatissimi dormitori diurni, per poi sparpagliarsi nei campi al primo calare delle tenebre. Fra i danni che si potrebbero definire propriamente economici ci sono quelli all’agricoltura e all’itticoltura, causati dalla crescita fuori controllo delle popolazioni di ungulati di ogni specie, di storni, di piccioni torraioli e di cormorani. Poi ci sono i danni ambientali, che riguardano non solo il patrimonio boschivo (alcuni ungulati come i daini) o gli argini dei fiumi e i terrapieni dei ponti (nutrie) ma la stessa biodiversità. A questo proposito, sappiamo che il documentario non ci mostrerà l’imminente fine della colonia di Berta Maggiore dell’Isola di Pianosa, causata non certo dai cacciatori ma dai gatti rinselvatichiti; non ci racconterà nulla sull’inesorabile scomparsa dello scoiattolo europeo (quello rosso) causata dal cugino americano (quello grigio). Scoiattoli e gatti che però, nonostante le accorate richieste di autorevoli ricercatori e direttori di parchi, preoccupati di salvaguardare la biodiversità, non possono essere eliminati perché altrimenti qualche animalista ipersensibile e un paio di gattare rischiano di farsi venire un coccolone.
Sappiamo con sicurezza che il documentario ci addosserà la colpa di aver ripopolato di cinghiali le campagne per poi poterli cacciare; ma questa è una storia vecchia alla quale abbiamo fatto il callo.
Sappiamo però, che sulle nutrie, gli storni, i cormorani, i torraioli, gli scoiattoli grigi o i gatti rinselvatichiti, non si faranno commenti: né sui colpevoli della loro massiccia e nefasta presenza (sicuramente non i cacciatori), né sul come evitare o contenere i danni da loro arrecati.
Sappiamo che si continuerà a piangere sulla sorte del povero lupo e, al tempo stesso, sappiamo che si eviterà di dire che ci sono alcune province del centro Italia in cui la popolazione di lupi si aggira ormai intorno agli 80 (ottanta) capi, con una continua tendenza all’aumento; e che questa densità –sicuramente la più alta registrata in Europa, incredibile ma vero– richiede un’attenzione particolare prima che si trasformi in emergenza assolutamente ingestibile.
Sappiamo già che si parlerà poco o niente di epizoozie e della lenta e straziante agonia di migliaia di animali colpevoli solamente di essersi riprodotti troppo, senza che nessuno li gestisse. Ben sapendo che saremo accusati di aver sterminato, secoli addietro (magari fra quei vecchi cacciatori c’era anche il nonno o il trisavolo di qualche animalista odierno) i grandi predatori che avrebbero potuto assolvere egregiamente a questo compito.
Sappiamo che non verrà mostrata nessuna immagine serena di un vecchio che aspetta qualche tordo dentro un capanno, costruito con scienza e cultura millenarie, e che cerca di tramandare le stesse al nipotino, che preferisce seguirlo invece di bighellonare in qualche sala giochi.
Sappiamo che non si dirà nulla sulle tradizioni della civiltà rurale, di cui la caccia è da sempre parte inscindibile o sui rituali venatori propri di ogni regione, e perfino sulle mille ricette che si tramandano da secoli sull’uso migliore di cucinare i vari selvatici (e che risultano particolarmente ricercate da centinaia di migliaia di appassionati).
Non si parlerà del valore sociale ed educativo della caccia e degli sport praticati con le armi da fuoco che, al contrario, saranno sicuramente descritte come strumenti di violenza e di morte. Il tutto, nel più totale disprezzo di un’innegabile verità: che lo sport del tiro (in tutte le sue molteplici discipline) è l’unico in cui, da anni e anni, non si registrano né morti né feriti.
Il documentario non dirà che a praticare la caccia sono circa 7.000.000 di cittadini europei, fra i quali ci sono donne e uomini, vecchi e ragazzi, operai e dirigenti, scienziati e chirurghi, architetti e scrittori, ingegneri e pittori, poveri e ricchi, cattolici e di ogni altra confessione o religione.
Sappiamo per certo che la storica opera della giornalista D’Amico non spenderà neanche un fotogramma sul valore economico ed occupazionale dell’attività venatoria e tiravolistica; che non parlerà della produzione delle armi sportive italiane come di una delle poche eccellenze nazionali che possiamo vantare; dei 50.000 e più posti di lavoro che garantisce in Italia (175.000 in Europa) o degli oltre 15 miliardi di euro di fatturato annuo che il vecchio continente produce in questi settori. Che volete, simili dati rappresentano delle sciocchezze quasi insignificanti (quisquilie, avrebbe detto Totò) di cui è inutile parlare, anche in un momento come questo!
Sappiamo che non si farà nemmeno un cenno sulle infinite opere d’arte (affreschi, romanzi, poesie, quadri, sculture, musiche) che sono state create proprio grazie alla profonda emozione che la caccia suscita nell’uomo da millenni.
Ci sarà somministrata, questo è sicuro, una overdose di immagini idilliache, per dimostrare che la natura sa provvedere a se stessa, senza bisogno che l’uomo intervenga in alcun modo. Ci saranno un’infinità di bambi pomellati e di radure in fiore, di tenere nidiate con il becco aperto e di morbidi pulcini che arrancano dietro un germano, voli di rapaci e leprotti intenti a brucare l’erbetta.
Come si vede, del fondamentale lavoro animalista appena messo in cantiere noi sappiamo già tutto, o quasi. A dire il vero, non ne conosciamo la colonna sonora, ma siamo certi che spazierà da melodie con arpe e violini, a brani di forte drammaticità, con ampio uso di timpani e corni (forse anche da caccia) per le immancabili scene forti. E poi, equamente distribuite fra albe e tramonti, colline e paludi, montagne e stoppie, ci saranno tante fucilate che nemmeno alle Olimpiadi.
Vogliamo scommettere?
Mauro De Biagi
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