Eravamo molti amici al bar e diventammo due milioni e mezzo. L’indice di propagazione della voglia di caccia era quasi paragonabile a quello di un’epidemia influenzale.
Avevamo un legame diretto con la campagna, attraverso i nostri nonni, che c’erano voluti rimanere e la campagna era anche caccia, visibile, esibita, raccontata e gustata, come un privilegio. La forza occulta dell’esempio, delle immagini e dei discorsi, che il subcosciente elabora, permetteva alla coscienza comune di considerare la caccia come un‘attività famigliarmente tradizionale e giustamente collocata nella natura.
Ma fu proprio l’immaginario collettivo che lentamente avrebbe invertito la posizione dei pesi sulla bilancia. Il ‘68 cala la sua mannaia sulla mentalità mondiale e anche noi cominciamo a recepire esempi, immagini e discorsi differenti, in un processo continuato ma inesorabile, che ci porta novità tecniche, sociali, culturali e politiche; novità troppo spesso male elaborate perché condizionati da suggerimenti interessati.
L’ambiente fu una di queste novità su cui si cominciò a dibattere ed il primo grave errore, che noi, esperti in materia, abbiamo commesso è che ce lo siamo fatto scippare da alcuni intellettuali di barricata, che il dibattito l’hanno condotto, praticamente, senza contradditorio. Dalla nostra parte, mentalità spavalde e romantiche ma sopite e distratte, poco organizzate, incoscienti, sia delle grandi capacità di molti cacciatori, sia del grave rischio che si stava correndo, a causa del crescere, come funghi, di associazioni ambientaliste ostili ed agguerrite.
Associazioni che, cavalcando l’onda alta delle novità ambientali, sono riuscite a perseguire i loro obiettivi, sottraendoci, non solo territori, ma anche visibilità presso quell’opinione pubblica alla quale, da quei giorni, la parola caccia è arrivata sempre di meno. Parve quindi che, nel ‘90, con il referendum, fosse arrivato il momento giusto per dare alla caccia un duro colpo. Spesso, un rischio drastico, risveglia l’orgoglio e stimola all’unione, ma per noi è stata un’altra occasione perduta. Con il senno di poi e solo il mio, il referendum sarebbe stato meglio averlo ‘perso‘.
L’interminabile scontro con gli ambientalisti sarebbe finito e noi avremmo avuto tempo e spazio per riorganizzarci, padroni bastonati ma assoluti, all’interno di un sistema venatorio, privato si, ma comunque collettivo, nella costituzione di probabili cooperative provinciali, proprietarie esclusive dei diritti di caccia sui territori convenzionati. Questo, già allora, avrebbe unito, in modo inscindibile, i cacciatori con gli agricoltori, suggellando, sebbene contrattualmente, la tanto ambita cultura rurale.
D’altro canto, avere un’unica tessera di quel tipo, avrebbe impedito il proliferare indiscriminato di associazioni legate a partiti, bandiere e gadget di qualsiasi tipo; una sola tessera legata ad una certezza concreta, il territorio con la sua selvaggina. So già che questa ‘idea’ non piacerà a nessuno, ma che nessuno s’illuda, perché corriamo ancora il ‘rischio’ che ciò possa avvenire. Allora che cosa abbiamo fatto dal ‘68 fino ad oggi? Esattamente quello che la nostra società ha fatto: un’indigestione di novità caotiche distribuendo in giro denaro e nomine, a persone poco competenti ma allineate, senza avere la capacità di agguantare le opportunità e di tradurre concretamente le nostre aspirazioni, disperdendo un capitale umano più meritevole ma poco utile all’ “ideale”.
La caccia italiana questo ci offre, uno spaccato di quello che siamo socialmente oggi: tifosi sfegatati. Se i nostri rappresentanti volessero riproporsi come esempio ambientale e quindi rimettere in moto quel processo di forza occulta, che riporterebbe dalla nostra parte l’immaginario collettivo, allora che avessero il coraggio di cominciare a guardarsi dentro e cominciassero a potare i troppi rami di un albero che ha poca linfa vitale, anche a costo del sacrificio di se stessi, prima che siano gli stessi cacciatori a rovesciarli dalle loro poltrone.
Fromboliere