L'ambiente e la bellezza, per dirla ancora con Hans Magnus Enzensberger, sono beni preziosi. E ancor più preziosi saranno nel prossimo, prossimissimo futuro. Soprattutto per noi, che per la caccia viviamo. Lo voglio ricordare, richiamandomi di nuovo alle recenti note di Stefano Masini, perchè mi dispiacerebbe trovarmi fra non molto a rimpiangere un passato, trascorso ad arrabattarmi nella ricerca - in gran parte inutile - di quella felicità che oggi tutti noi tocchiamo, assaporiamo ogni volta che fucile in spalla lasciamo la macchina e ci immergiamo in un sogno. Chi con il cane, chi col binocolo, chi in un capanno, chi in botte.
La bellezza, dicevo. E mi viene in mente, come a tutti noi, la tavolozza dell'alba. La luce prima tenue e poi sempre più decisa che fa da contrasto ai contorni scuri dei monti, dell'orizzonte lontano, delle fronde di un albero. E quella del tramonto. Nel rosso infuocato che tutto brucia fino a precipitarsi in un azzurro profondo punteggiato dagli astri, nostri compagni nella notte. E prima dell'alba, e dopo il tramonto, i mille suoni del silenzio. Il vento, un soffio tenue, leggero, una carezza che ci richiama dal torpore. Una folata impetuosa, fredda, pungente, carica di acqua, di ghiaccio, che ci lega a una stagione forse solo a noi veramente grata. I richiami di uccelli nascosti. L'esplosione della primavera di un tordo in gabbia, lo schiamazzo di una gallinella nel canneto, il ragliare delle anatre alla cavezza nel chiaro. Il soffio di ali misteriose che ci fanno sobbalzare alla ricerca di un frullo. Il chioccolare di un merlo. Il bramito profondo di un cervo. Un mestolone che soffia, un marzolo che sgretola. L'allodola che pigola al sole. La starna che richiama i compagni. Non è bellezza questa?
E i colori? Quelli sgargianti dei maschi, gli altri tenui delle femmine. Le piume di un fringuello, la marezzatura del dorso della beccaccia, le teste sgargianti dei fagiani, dei fischioni, dei germani, dei moriglioni, il contrasto della livrea bianconera nella linea elegante di un codone. La pupilla di una lepre, l'ovatta delle piume di un gufo, lo zuccotto tabacco di un frosone, il petto screziato di una tordela.
Una bellezza, quella della natura, che canta le lodi del creato in ogni angolo della terra, nelle profondità degli abissi, in tutte le espressioni dolci e tragiche della vita. Una leonessa che carezza i suoi cuccioli, una pantera che insegue la sua gazzella, una pupa che diventa farfalla, un pellegrino che ghermisce un colombaccio. Un bosco che ingiallisce. Un leccio che muore nella morsa di un'edera crudele.
Ricordo un vecchio film di fantascienza. In una realtà futuribile, ma molto probabile, su un pianeta ormai coperto dall'acciaio e dal cemento, il cibo scarseggia. Il governo mondiale promuove l'eutanasia per riciclare la carne umana in “polpette”. Uno dei tanti anziani è perplesso, non se la sente di morire prima del tempo. Lo convinceranno non con l'ultimo pasto, ma con la proiezione di un documentario “proibito”, con le immagini di una terra che, molto tempo prima, da giovane, era stata per lui il cibo dell'anima. Visioni incantate, dove ognuno di noi, oggi ancora riconosce le meraviglie indicibili drammaticamente e intimamente impastate del sudore dell'uomo. L'armonia del paesaggio, cioè, l'insieme di natura e cultura, i boschi, i campi, le messi, quella selvaggina, fino a poco tempo fa definita “pregiata”. Una messe anch'essa, da raccogliere nella giusta stagione. Nel rispetto dello stretto legame tra uomo e territorio, tra territorio e animali.
Una verità che noi conosciamo da sempre, ma per il quale, per spiegarlo alle odierne masse inconsapevoli si inventano nuove definizioni. Biodiversità, per esempio. Una parola di cui tutti si riempiono la bocca, spesso collegandola a una cultura rurale, che oggi purtroppo è stata stravolta, lontana anni luce da quella di un mondo, il nostro di un tempo, in gran parte sacrificato sull'altare della modernità. Dell'industria agricola, che ha eliminato siepi, piallato i campi terrazzati, cementificato gli alvei di fossi e ruscelli, disconosciuto le sagge pratiche millenarie della regimazione delle acque, della diversificazione delle colture (l'orto, il campo, la vigna, l'oliveto, il canneto, i salici lungo il fosso, la quercia in cima a un poggio, il filare di cipressi per reggere una proda, una strada, il bosco, la carbonaia; il podere “formato famiglia”), deturpato il paesaggio. Trasformato radicalmente l'ambiente rurale, regola antica del respiro della terra.
Una ricchezza intima, interiore, che noi cacciatori forse più di qualsiasi altro, sappiamo essere sempre più rara, nel momento stesso in cui ci accorgiamo che gli altri, quelli che a gran voce ne denunciano la scomparsa, occupati nella ricerca di un colpevole a basso costo, in verità ben poco fanno perchè ciò non accada.
Un appello? Continuiamo a vivere con entusiasmo la nostra passione. Siamo nel giusto quando ci adoperiamo per difendere le scelte dei nostri padri. Impegniamoci ancora per una caccia seria, equilibrata, consapevole. Andiamo alla radice del problema. Denunciamo le storture di un modo di vivere, di un mondo che si professa ambientalista, ma che ci sta guidando verso il disconoscimento di quella profonda umanità della nostra cultura millenaria, ricca di tradizioni, di saggezza, di conoscenza delle leggi che regolano la natura. Una natura ormai non più wilderness (selvaggia), da tempo immemorabile, ma orientata invece verso un uso sapiente, responsabile, che fino ad oggi ci ha consentito di raccogliere gli interessi e di salvaguardare il capitale.