Uno sguardo alle nostre origini, a quelle comuni di tutti gli uomini, farebbe bene ai tanti vegani e fruttariani che spesso sacrificano ogni ragionevole dubbio alla loro nuova religione animalista. Non farebbe male a costoro leggere il bellissimo saggio di Edward O. Wilson, pubblicato sul New York Times e tradotto su Repubblica qualche settimana fa (La storia siamo noi – Perchè cooperare fa bene alla specie), un riassunto del percorso evolutivo della nostra specie che ci permette di guardarci con occhi disincantati e consapevoli. “Come l'umanità è arrivata a essere quello che è?”. Partendo da questa semplice domanda il padre della moderna sociobiologia, ovvero la scienza che a partire dagli anni 70 ha messo in relazione i meccanismi biologici degli esseri viventi con la comparsa e lo sviluppo delle società animali (e quindi anche umane), spiega il fondamentale contributo della scienza, o meglio dire delle scienze, per riuscire a comprendere chi realmente siamo, compito spesso demandato al cosiddetto sapere umanistico: alla filosofia, alla storia e alle espressioni artistico – letterarie.
E' la scienza, questo complesso e meraviglioso strumento (Wilson pensa ad una stretta correlazione tra biologia, neuroscienze e paleontologia) che ci permette di comparare tutte le informazioni possibili come perfetti minuscoli pezzettini di puzzle, a darci tutte le risposte, comprese quelle di ordine etico, morale e spirituale. Nozioni che ci fanno capire per esempio che l'essenza di ciò che siamo risiede proprio nelle origini della complessa organizzazione della nostra società, straordinaria sì, ma non poi così differente da quelle replicate da poche dozzine di specie (insetti soprattutto). Poche, pochissime se pensiamo che sono milioni quelle apparse sulla terra. Anzitutto, e questa è una tesi finora inconfutabile, non è possibile dividere la nostra straordinaria unicità (come ci piace credere) dal ruolo fondamentale della caccia, che ha permesso ai nostri progenitori di sviluppare non solo le proprie qualità cognitive (sviluppo del cervello) e fisiche (aumento delle dimensioni, salute e una morfologia adatta alle attività manuali), ma anche dei nostri modelli sociali, di quelle interazioni che ci hanno portato fino a qui. Lo spiega così Wilson: “da studi condotti su esseri umani moderni, incluse popolazioni di cacciatori-raccoglitori, la cui vita ci dice molto sulle origini della razza umana, gli psicologi sociali hanno dedotto la crescita mentale innescata dalla caccia e dagli accampamenti”. Il mondo dei cacciatori itineranti, che tornavano al focolare dopo estenuanti e pericolose battute, è ciò che ci ha reso ciò che siamo. “Le relazioni personali fra i membri del gruppo, calibrate al tempo stesso sulla competizione e la collaborazione, hanno acquisito un ruolo predominante – spiega il sociobiologo -. Il processo è stato incessantemente dinamico e difficoltoso, superando largamente in intensità qualunque esperienza analoga dei branchi itineranti e scarsamente organizzati prevalenti nella maggior parte delle società animali”.
E' proprio da lì, quindi, che è partita la scintilla che ci ha portato fino a noi. Continua Wilson: “Serviva una memoria efficiente per valutare le intenzioni degli altri membri del gruppo, prevedere le loro reazioni di volta in volta: e il risultato è stato la capacità di inventare e simulare internamente scenari conflittuali di interazioni future. L’intelligenza sociale dei preumani ancorati all’accampamento si è evoluta come una sorta di partita a scacchi senza fine”.
Certo da quelle remote origini le cose sono cambiate. Col tempo ci siamo reinventati, abbiamo creato sistemi di valori nuovi e spesso bizzarri, ci siamo persino permessi di chiudere la porta a quel che eravamo, dimenticando che, come tutti, non siamo altro che animali. Un errore imperdonabile, che non fa altro che allontanarci dalla realtà e farci sentire estranei alla natura, di cui, anche se non ne siamo pienamente consapevoli, continuiamo a far parte. “Vi siamo legati – spiega Wilson - dall’emozione, dalla psicologia e, non ultimo, da una storia radicata. È pericoloso pensare a questo pianeta come a una stazione intermedia verso un mondo migliore, o continuare a convertirlo in un’astronave programmata dall’uomo. Contrariamente all’opinione generale, non ci sono demoni e dei che si contendono la nostra devozione. Siamo frutto del nostro operato, siamo indipendenti, soli e fragili. Capire noi stessi – conclude lo scienziato - è la chiave per sopravvivere nel lungo periodo, per gli individui e per le specie”. Vien da sé che se sapremo farlo, sapremo anche guardare con maggior serietà anche al nostro posto nel mondo e sapremo finalmente proteggerlo senza cercare di dominarlo o di reinventarne le regole. Più ci sentiremo figli di Diana e meglio ci riusciremo.
Cinzia Funcis