Ho conosciuto la caccia con mio padre, che purtroppo non è mai stato per me un gran maestro di arte venatoria: ingegnere e dirigente dell’ufficio tecnico di un comune della provincia fiorentina mi portava con sé quando veniva invitato “in riserva”. Talvolta andavamo al capanno o al passo con un suo collega, economo del comune, che aveva un nutrito numero di gabbie e un bel pointer.
La superficiale passione di mio padre trovò però in me un terreno talmente fertile che iniziai con insistenza a cercare di smuovere la sua pigrizia, perché approfittasse di tutte le occasioni che gli si presentavano per portarmi a caccia. Lo convinsi con richieste martellanti ad acquistarmi una carabina Diana con la quale insidiavo piccioni e passerotti nel giardino di casa. Preso il porto d’armi appena consentito dall’età (erano quelli i primi anni in cui veniva richiesto l’esame per l’abilitazione) l’ho sempre regolarmente rinnovato. Il mio primo fucile è stato un monocanna del 24, poi è arrivato un sovrapposto Beretta lungamente agognato ed i primi cani. Dopo che mio padre, per motivi di salute, fu costretto ad affidarmi la sua vecchia doppietta belga, negli ultimi anni del liceo e in quelli dell’università mi sono dedicato esclusivamente alla caccia con il cane da ferma.
Il mio rapporto con la caccia non ha tuttavia avuto sempre la medesima intensità. Una seconda nuova passione per lunghi anni ha occupato gran parte del mio tempo libero: la caccia subacquea in apnea, attività dura e bellissima che vede l’uomo confrontarsi con la preda in un ambiente che gli impone drastiche limitazioni. Nella quale sono essenziali l’allenamento, la tecnica, l’astuzia, la conoscenza del mare e dei suoi abitanti ed una stoica sopportazione della fatica. Sarà per questo che quando, una volta trascorsi gli anni dell’impegno agonistico, sono tornato ad essere cacciatore di terra a tempo pieno, dopo una breve esperienza da migratorista mi sono procurato un altro setter ed ho cominciato a corrergli dietro per monti e valli alla ricerca di qualche fagiano e di rare beccacce, con tanta fatica e poco carniere, ricercando sistematicamente quei luoghi dove potevo anche rischiare di trascorrere un’intera giornata senza incontrare nessuno.
In quegli anni mi sono trovato quasi per caso ad essere iscritto ad una squadra di cinghialai dell’Appennino, di quei monti dove scorrazzavo abitualmente con il mio setter. Mi ricordo che il numero delle catture annuali superava di poco i trenta cinghiali, cifra che oggi fa sorridere e mi ricordo anche la noia mortale delle giornate trascorse alla posta. Però quell’esperienza mi ha insegnato ad apprezzare il piacere di osservare nel silenzio un mondo nel quale spesso entriamo come se fossimo ciechi e sordi e mi ha dato la possibilità di conoscere meglio quei caprioli che in precedenza avevo solo intravisto davanti alla inutile rincorsa del mio cane.
Erano i primi anni novanta e a Firenze si cominciava a sentir parlare di caccia con la carabina e di selezione agli ungulati, cose per me misteriose e nuove. Per farla breve, seguendo i consigli di un amico che aveva già iniziato a praticare questa nuova caccia, finalmente nel 1998 ho avuto in assegnazione il mio primo piano di prelievo di due caprioli ed ho potuto scoprire un mondo che non conoscevo, un modo di praticare l’attività venatoria completamente diverso e appagante, senza stress, senza rincorse per il posto migliore, senza concorrenza con gli altri cacciatori, una caccia fatta di lunghe ore di osservazione attenta e di poche fucilate, nella chiara e per me tranquillizzante consapevolezza di cogliere solo gli interessi di un capitale che viene preservato e conservato integro grazie anche al lavoro dei cacciatori.
Abitando in campagna da oltre dieci anni in una zona frequentata da molti cacciatori provenienti dai vicini centri abitati, ogni anno seguo in diretta quella che per me è diventata una ridicola farsa: lanci di riproduttori a gennaio, lanci pronta caccia ad agosto, immancabile strage tra settembre e ottobre, deserto a novembre. Ho immediatamente percepito il contrasto stridente che esiste tra questa realtà e la “mia” caccia di selezione. Il tanto vituperato legame del cacciatore al territorio e la necessità della specializzazione sono per me diventati elementi indispensabili per una corretta gestione su basi scientifiche di tutte le specie selvatiche. Mi sono infatti sempre chiesto per quale motivo un appassionato segugista dovrebbe addestrare e mantenere dei cani un anno dopo l’altro per vedere poi cadere le lepri a decine sotto il piombo di qualcuno che nei giorni dell’apertura da solo e senza cane si sciroppa chilometri e chilometri avanti e indietro lungo i filari delle vigne. Per me sarà un gran giorno quello in cui le lepri potranno essere cacciate unicamente dai lepraioli e fagiani e beccacce solo con il cane da ferma, il tutto sulla base di stime della consistenza delle popolazioni animali e di conseguenti piani di prelievo.
Solo così avrà temine la sceneggiata dei ripopolamenti. Mi rendo conto che per quanto riguarda la migratoria il discorso è in parte diverso, una maggior mobilità può risultare necessaria e più complesso il monitoraggio della consistenza effettiva delle singole specie e l’applicazione dei principi di una gestione conservativa. Tuttavia il problema ce lo dobbiamo porre. Due sono sostanzialmente le condizioni che rendono oggi la caccia una attività sostenibile ed eticamente accettabile: la sintonia con la cultura espressa da un determinato contesto sociale ed un approccio non distruttivo ma conservativo e di valorizzazione delle specie selvatiche. Fatte salve queste premesse non esistono forme di caccia migliori o peggiori di altre se non nei gusti di chi le pratica.
Invece una parte cospicua del mondo dei cacciatori è arroccata su posizioni nostalgiche, sta aggrappata con le unghie e con i denti ad un passato che non può tornare, inneggia alle tradizioni, anche quelle indifendibili, e pensando che sia arrivato il momento della riscossa, si rende spesso strumento di giochi politici; nel frattempo chi pratica la caccia di selezione gode del proprio splendido isolamento, sentendosi pago dei risultati raggiunti, senza comprendere appieno che è da questo per noi nuovo modo di intendere la caccia che deve prendere avvio la rivoluzione culturale che salverà i cacciatori italiani, migratoristi compresi.
La caccia è dunque giunta ad un bivio. L’età media dei cacciatori cresce inesorabilmente ed il rapporto con il resto della società, con il comune sentire e con una diffusa percezione di quelli che sono i comuni interessi, si fa sempre più labile e talvolta conflittuale. E’ dunque ora più che mai necessario che la forza di idee nuove capaci di trasformare l’esistente trovi gambe su cui camminare.
La caccia deve conquistarsi sul campo l’universale riconoscimento di un nuovo ruolo nel rapporto tra civiltà urbana e mondo rurale, con la creazione e valorizzazione di una nuova identità culturale del cacciatore quale custode della natura e avveduto amministratore delle popolazioni selvatiche, guida e maestro per le nuove generazioni alla conoscenza di un mondo spesso misterioso, divulgatore di un ricco bagaglio di esperienze e conoscenze necessarie per un corretto rapporto con il mondo animale.
Occorre inoltre trovare una via originale per coinvolgere gli agricoltori e gli abitanti delle aree rurali in un nuovo progetto gestionale in cui la caccia possa essere riconosciuta come risorsa e non solo come fonte di disturbo e di danno. Certamente la specificità italiana rende difficile e critico questo rapporto. L’esclusione del diritto di caccia dalla sfera di quelli connessi alla proprietà fondiaria impedisce la quasi automatica affermazione di un sano criterio di gestione faunistica, pur se a fini prevalentemente economici, applicabile alla totalità del territorio utile. La sola risposta efficace risiede nel legame del cacciatore al territorio, già peraltro realtà per la caccia agli ungulati, e nell’individuazione di meccanismi di valorizzazione anche economica dei proventi della caccia che siano di stimolo diretto ad un indotto turistico-gastronomico.
Muovendo poi dal presupposto che la natura è ormai talmente condizionata dalla presenza e dall’intervento umano che l’uomo stesso non può non assumersi la responsabilità di regolarla nell’interesse di tutti gli esseri viventi che la abitano, il cacciatore dovrà appropriarsi un ruolo di grande dignità nell’interesse dell’intera collettività: quello di custode dell’ambiente e di gestore oculato dei necessari equilibri tra le diverse popolazioni animali e tra queste ultime e le attività umane.
Perché il moderno cacciatore sia in grado di adempiere a questi nuovi compiti è necessario investire, anche da parte delle istituzioni, in corsi di formazione per cacciatori. Occorrono nuove scuole faunistiche che siano diffuse su tutto il territorio nazionale, così da riempire un vuoto che, salvo isolate lodevoli iniziative, affligge l’Italia centro meridionale.
E’ inoltre indispensabile uscire dalla riserva indiana nella quale ci siamo cacciati affrontando un’opera di sensibilizzazione e di corretta informazione sui media, rivolta essenzialmente all’opinione pubblica dei non cacciatori.
Dobbiamo infine recuperare e valorizzare espressioni artistiche, sia nel campo figurativo che in quello musicale oltre che in quello letterario, che hanno da sempre accompagnato l’esercizio della caccia nella preistoria e nella storia della specie umana.
Si parte infatti dalle scene ritratte nei graffiti rupestri e dai canti rituali delle antiche tribù cacciatrici per giungere ai magistrali dipinti dei macchiaioli ed alle composizioni musicali dedicate alla caccia da grandi maestri del diciottesimo e diciannovesimo secolo (Haydn, Rossini), senza dimenticare i canti popolari del trentino o della più vicina maremma. Le arti figurative e la musica, prima ancora della parola scritta, sono stati mezzi con cui si è espressa la cultura di un popolo ed attraverso cui le attività umane, come anche la caccia, sono state rappresentate e sono assurte al ruolo di dramma collettivo.
Muovendo dall’arte e dalla scienza possiamo dimostrare che la caccia ed i cacciatori, oltre che nel passato, hanno oggi nel presente ed avranno nel futuro un ruolo ed un compito insostituibili.
Basta dunque lamentarsi sempre aspettando il salvatore della patria o l’uomo della provvidenza di turno: dobbiamo darci da fare. Non basta andare a caccia per essere un cacciatore del terzo millennio. E’ richiesto un impegno in prima persona da parte di tutti coloro che sono in grado di assolverlo, ma non solo e non tanto un impegno politico-organizzativo di tipo lobbistico e corporativo: un impegno costante nei vari settori della pubblicistica e del giornalismo, della formazione tecnico-scientifica, della cultura e dell’arte legate al mondo della caccia, della ricerca di soluzioni normative che consentano una legittima valorizzazione del prodotto del prelievo venatorio. Senza dimenticare il ruolo determinante dell’esempio e dell’immagine positiva che possono essere trasmessi a cacciatori e non cacciatori applicando con costanza gesti e rituali tratti, pur senza scimmiesche imitazioni, anche da un confronto dialettico con realtà di altri paesi, in modo tale da contribuire a restituire particolare identità e dignità alla dimensione corale all’atto venatorio.
Secondo quella che è e rimane semplicemente una mia opinione, unicamente con un impegno di questo genere, senza bisogno di battere i pugni sul tavolo o lasciarsi travolgere da uno sterile vittimismo e senza la necessità di inventarci nuovi politicanti, potremo un giorno non lontano proporre a buon diritto alle scuole primarie progetti formativi nella veste di divulgatori di conoscenze legate al mondo della natura e della ruralità, in modo tale da stimolare atteggiamenti equilibrati e non ideologici e contrastare finalmente l’ egemonia che in quel settore hanno storicamente le più faziose associazioni ambientaliste.
Claudio Nuti