L'altro giorno al GameFair ho avuto modo di fare una piacevole chiacchierata con alcuni esponenti storici della caccia, ma anche e ancora attuali per l'esperienza, il pensiero e le attenzioni che tuttora riservano a questo nostro meraviglioso mondo.
Mi sembra giusto quindi renderne conto a una platea più larga, condividendone gli argomenti in grandissima parte. Prima considerazione. Che si soffra di un ristretto ricambio generazionale è "aldilà di ogni ragionevole dubbio". Le cause? La mancanza di vocazioni, ovviamente, ma anche il fatto che da quando l'età minima per ottenere la licenza di caccia è passata da sedici a diciotto anni, è successo che questo minimo gap di due anni appena, in un contesto sempre più metropolitano, ha dirottato i nostri adolescenti verso altre - discutibili - tentazioni. Cosa fare? E' indispensabile tornare nella società, in quel mondo che non ci conosce e a volte ci avversa, per spiegare con argomenti comprensibili anche ai tantissimi agnostici profani come oggi più di ieri andare a caccia sia di profonda attualità.
Seconda considerazione. Abbiamo una classe dirigente inadeguata. Anche qui, dato l'andazzo precedente, non ci sono dubbi. Non sono illazioni gratuite. Basta rendersi conto che il numero dei cacciatori in venti anni è più che dimezzato, mentre in controtendenza non è diminuita l'ostilità nei nostri confronti. Perchè? L'ipotesi più accreditata passa prima di tutto per l'impossibilità diffusa a trovare obiettivi comuni. Quelle poche o tante risorse intellettuali e materiali di cui disponiamo vengono in grandissima parte sperperate nel farci la guerra fra di noi, singoli cacciatori divisi per categorie (migratoristi, cinghialai, selettori, cinofili e cinotecnici), e associazioni, piccole o grandi, riconosciute e non riconosciute, che spesso si affrontano non sui contenuti ma sugli espedienti, anche mediocri, per rifilare una tessera. La politica fa il resto. Ognuno di noi ha una sua bandiera, a volte da poco inalberata, a volte incautamente adottata. E allora? Allora bisognerà adoperarsi per raggiungere un minimo di sentire comune, ma soprattutto di tendere a un rapido ricambio non solo generazionale (scopa nuova spazza meglio), ma anche di gente più preparata, in grado di affrontare le nuove sfide della società, metropolitana e tecnologica, pronta ad innestarvi i nostri valori e le nostre competenze.
Terza considerazione. Ma siamo sicuri di avere a disposizione le necessarie e adeguate competenze? Qui le opinioni si dividono. C'è chi dice che prima che i nuovi si facciano le ossa, servirebbe almeno un periodo di rodaggio (e questo suona a disdoro di chi oggi guida le nostre schiere al centro e sul territorio: avrebbero dovuto pensarci per tempo), mentre altri pensano che di rincalzi ce ne abbiamo pochi, dal momento che altri interessi prevalgono sugli indubbi sacrifici a cui sottostare da parte di chi si mette a disposizione del bene comune. A ciò occorre aggiungere che la diffusa disoccupazione nelle classi giovanili pone più impellenti e legittime priorità. Tutto questo, prima ancora di disquisire sulle più indicate strategie da mettere in campo per affrontare il difficile ma indispensabile recupero. Che semmai potrà essere oggetto di future riflessioni.
Conclusioni. Come impostare dunque un progetto preliminare per dare un domani alla nostra passione? Risposte semplici in un mondo governato dalla complessità non ce ne sono. Quello che traspare tuttavia è che esistono ancora sacche d'interesse che andrebbero di nuovo coltivate. Negli ultimi vent'anni, mentre le licenze di caccia calavano di anno in anno, molti di coloro che sparivano alla vista persistevano nella collateralità. Non sono pochi ancora oggi coloro che praticano la caccia esclusivamente fuori dei nostri confini. In buona parte abbienti (ma non solo) e in definitiva abbastanza preparati: conoscono almeno una lingua, sono al corrente delle regole di caccia di altri paesi, dispongono di rispettabili competenze faunistico-venatorie. Molti altri sono passati al tiro, trascinando con sè figli e nipoti, che potrebbero costituire un buon serbatoio su cui basare un programma minimo di rilancio.
Il disegno, appena abbozzato, ha bisogno tuttavia di un supporto corale. Prima di tutto le associazioni venatorie: almeno su questo dovrebbero mettere da parte futili conflitti e illogiche concorrenze. Poi il mondo della produzione, agricoltori compresi. Che riescano a coniugare l'interesse immediato (attenzione al mercato) con obiettivi di prospettiva. E più che sul mondo ambientalista (ormai perso, salvo rare oasi di riflessione non fideistica) si dovrebbe insistere sul mondo della ricerca, delle accademie, per mirare alla costituzione di nuova conoscenza, ma soprattutto di percorsi di formazione integrale, che siano capaci di sfornare quei nuovi dirigenti in grado di affrontare le tempeste di questa società, sempre più soggetta a manomissioni ideologiche che niente hanno a che fare col mondo reale.
E infine, qulache spunto, per non addormentarvi, lo voglio però dare, anche se non prettamente venatorio. Basta guardarsi intorno, ascoltare, per capire che il grande malato, anche per la caccia, è l'ambiente. Diventare protagosti attivi, mettendosi a disposizione della società, essere noi i primi ambientalisti con iniziative mirate, fatte conoscere, soprattutto nei loro risvolti concreti, tangibili, dovrebbe essere la prima cosa su cui ci dovremmo applicare. Tutto il resto, a mio parere, viene di conseguenza.
Siro Ponti