In questo periodo di pandemia, ci ricordano che la parola crisi può essere declinata in positivo, perchè aiuta ad aguzzare l'ingegno. In oriente, addirittura, adoperano lo stesso termine per esprimere il concetto di "opportunità".
Per questo - se ci è consentito utilizzare analoga duplicità per le nostre piccole cose, pur grandi per noi che amiamo la caccia - la perdita di tanta conoscenza e tanta saggezza di questo sciagurato periodo che ci ha privato di molti anziani e valorosi cacciatori, può e deve farci riflettere su come dare nuovo impulso al nostro impegno.
D'improvviso, infatti, come se il problema s'affacciasse solo adesso, si alzano voci per l'allarmante calo delle nostre schiere. Che ovviamente non dipende solo dalle amare perdite di adesso, ma da ragioni più complesse e più profonde che per più di mezzo secolo sono state ampiamente trascurate.
C'è carenza di vocazioni, si dice. I giovani non sono più attratti da questa nostra passione, non siamo stati capaci di dare loro una sufficiente educazione e formazione zoologico-ambientalistica. All'estero sono più bravi. Da quelle parti l'esame di caccia è molto più performante.
Giusto. Tutto vero, anche se non basta per inquadrare il problema. Soprattutto se vogliamo trarre insegnamento dal passato, come di solito si deve fare. Il raddoppio dei cacciatori dall'80 al '90, documentato dall'Istat, fino a raggiungere il picco di oltre 1.700.000 doppiette, aveva fatto sperare in un costante mantenimento dei "contingenti", senza contare che le repentine trasformazioni della nostra società, da profondamente rurale a violentemente industriale, avevano irrimediabilmente modificato il rapporto fra gli italiani e la campagna. La nostra campagna, che non era natura ma profonda cultura, ricca di abitudini, pratiche e paesaggi millenari. Col boom economico, l'abbandono delle terre per un reddito sicuro in città, in fabbrica o nei servizi, le nuove disponibilità avevano consentito agli ex contadini, maschi, di rimanere legati alla tradizione, alle vecchie passioni, dedicando il finesettimana alla caccia. Nel contempo però, nelle città che si allargavano, un'idea di consumismo esasperato si portava dietro una cultura disneyana, l'immagine di una natura incontaminata da contrapporre allo stress e allo smog delle fabbriche, di cui ancora soffriamo le conseguenze. Fu così che all'aumento di cacciatori si costituì quel fronte di opposizione, mascherato da un ambientalismo all'inizio anche di matrice venatoria, elitaria, che in un primo momento puntò alla privatizzazione della caccia, ma che poi - sotto la spinta di altri interessi economici - si trasformò sempre di più in animalismo peloso, per distrarre da una parte l'attenzione dell'opinione pubblica dai veri disastri ambientali, dall'altra per consolidare quegli affari che hanno portato a una ottusa parcomania, al business dei pets, ai naturalisti della domenica, al turismo alternativo, da qualche salottiero ancora oggi definito "intelligente".
Per la caccia, cominciò il calvario, additata ingiustamente come la causa di tutti i mali della natura. L'esame di caccia obbligatorio (e per certi versi necessario), il contingentamento delle specie cacciabili, la riduzione dei calendari e delle giornate e la limitazione del carniere, ma soprattutto il divieto di conseguire la licenza di caccia ai minori di 18 anni, furono le risposte che il mondo dei cacciatori, sostanzialmente in difesa, dovette subire. Impegnato fino allo sfinimento in quella guerra intestina, che perdura fino ad oggi, provocata dalla sentenza della Corte Costituzionale che favorì la nascita di un fiorilegio di associazioni venatorie che a colpi di promesse spesso impossibili da mantenere impedirono e impediscono che ci si possa applicare intelligentemente a quella riforma dei cervelli, necessaria a tornare protagonisti in questa società assolutamente diversa e continuamente in movimento, che non solo noi cacciatori si fa fatica a interpretare.
Poi, per tornare alle vicende passate, arrivò la vittoria del referendum, che invece di darci un po' più di respiro, partorì l'accordo di compromesso (fra cacciatori, una parte cospicua di agricoltori, chimica che parallelamente rischiava forti ridimensionamenti) - la legge quadro 157/92 - che dai grandi numeri di allora in trent'anni ha riportato i cacciatori a consistenze pressochè anteguerra, con l'aggravante che oggi ci mancano i giovani. E senza di loro, ce ne siamo finalmente accorti, è impossibile frenare il declino.
Quindi, ben venga un bel dibattito, come preludio a una rapida presa di coscienza su come capovolgere questa spiacevole tendenza. Di sicuro, non sarà una cosa nè semplice nè facile. Anche se ci metteremo tutta la nostra passione. Il mondo oggi è molto complesso, ci muoviamo su dimensioni planetarie, con spinte tuttavia a rifugiarci di nuovo in angusti e a volte gretti localismi. Dovremmo perciò fare di necessità virtù e affrontare la crisi nella convinzione che sia una opportunità. Con obiettivi chiari. Tanto rivoluzionari quanto antichi.
Nella nostra cultura mediterranea c'è un termine che va oltre la duplicità. E' la parola greca Oikos. In origine ha il significato di casa, famiglia, unità culturale e sociale. Ma che acquisisce anche il valore di ambiente vitale, ecologia, economia. Un insieme di concetti che riportano a un armonia fra natura e cultura, in cui si dovrà esprimere il nostro approccio a quel mondo dei giovani, ma più ampiamente a tutta la società, per dare corpo al nostro riscatto.
Valter Brunori