Mentre noi continuiamo a bisticciare sul calendario, sulle deroghe, sulle specie da reintrodurre nell'elenco della Direttiva Uccelli - importanti, importantissimi, intendiamoci - altre cose accadono in questo nostro mondo. E ben più importanti per il futuro non solo della caccia. Ma, lo voglio sottolineare, anche e soprattutto - seppur non nell'immediato - per la caccia e i cacciatori. Italiani, europei, planetari in genere. In sostanza, lo rileva un esauriente reportage del National Geografic, lo stile alimentare più consono all'uomo, quello degli antichi cacciatori, oggi ancora presenti e non ancora residui fossili del passato, può salvare l'umanità da un tracollo nutrizionale da tempo annunciato.
Copio e incollo dal National: "Le ricerche - precisa Alyssa Crittenden, antropologa della University of Nevada a Las Vegas - hanno mostrato che fra i popoli come gli Tsimane, gli Inuit o gli Hadza l'incidenza di ipertensione, aterosclerosi e malattie cardiovascolari è storicamente molto bassa. «Tanta gente pensa che il cibo moderno sia troppo diverso da quello che dovremmo mangiare secondo i dettami dell'evoluzione», spiega Peter Ungar, paleoantropologo della University of Arkansas. È come se vivessimo nell'era dei fast food con un corpo rimasto intrappolato nell'età della pietra. È questa la tesi all'origine dell'attuale successo specie negli Stati Uniti delle cosiddette diete "paleolitiche". Dal punto di vista evolutivo, si sostiene, gli esseri umani moderni sarebbero predisposti a nutrirsi come facevano i cacciatori-raccoglitori del Paleolitico, tra 2,6 milioni di anni fa e l'inizio della rivoluzione agricola; i nostri geni non avrebbero avuto il tempo di adattarsi ai cibi coltivati."
Altri ricercatori, naturalmente, la mettono in maniera diversa, e in effetti la situazione è un po' più complicata. L'uomo di oggi non è altro che il risultato di quello che mangiarono i suoi antenati. Con differenziazioni legate al territorio e all'ambiente in cui questi dettero vita alla loro evoluzione, da homo erectus (cervello più piccolo, pancia larga perchè vegetariano) a homo sapiens sapiens, soprattutto dopo la scoperta del fuoco per cuocere le vivande. E grazie anche alle donne "raccoglitrici" di erbe e frutti, che contribuivano alla dieta a base di carne procurata dagli uomini-cacciatori.
Insomma, se si vorrà combattere il... logorio della vita moderna [gli Inuit, gli allevatori di renne siberiani, come gli Jakuti o gli Evenki, - proseguo con il copia-incolla - hanno sempre consumato molta carne, ma i loro tassi di malattie cardiovascolari sono aumentati solo quando hanno quasi abbandonato la vita nomade e hanno cominciato a comprare da mangiare al mercato.] , si dovrà ricorrere a una dieta più antica, più sana, a base anche di carni rosse, non quelle dei polli in batteria o dei maiali "tedeschi", ma carne di uccelli selvatici; mi viene in mente quella deliziosa dell'alzavola o il nihil melius turdo (niente, meglio del tordo) di oraziana memoria, o di cinghiale o di cervo.
Intanto, si legge sullo stesso numero del National, avanza a grandi passi anche la cultura del consumo di insetti, ricchi di proteine a basso costo, che forse salveranno dalla fame l'umanità.
Dovessi scegliere, come avrebbe detto mio nonno, gli insetti li farei mangiare ai tordi e - poi - mi adopererei per mettere i tordi in carniere. Per farne cosa, lo sappiamo noi meglio di qualsiasi altro, ma forse, sarebbe bene se cominciassimo a ricordarlo anche ai nostri vicini di casa, che strizzano l'occhio - fa bene Cinzia Funcis a ricordarlo - a certe stupidaggini vegane, come le chiama il professor Migliaccio, nella parodia che ne fa Fiorello alla radio.
E mentre tutto questo succede, continua la battaglia per farci mangiare cibi a base di prodotti OGM. Io, in questa competizione fra campesinos e multinazionali, sto dalla parte di Carlo Petrini che - almeno per l'Italia - sulla questione conclude lapidariamente, sostenendo che la ragione principale del No agli OGM si chiama sovranità alimentare, una bellissima espressione, coniata quasi vent'anni fa per indicare il diritto di ogni paese (e dunque dei suoi cittadini, del suo popolo) ad avere il controllo politico su quel che si coltiva e si mangia sul proprio territorio, cioè a decidere le proprie politiche agricole in base alle proprie necessità nutrizionali, economiche, culturali ed ecologiche. Questo diritto è fondamentale per il benessere di un popolo, quel benessere che... si misura rilevando le competenze alimentari diffuse tra le giovani generazioni, si misura in termini di identità, quella stessa identità che rende così economicamente rilevante il nostro made in Italy, il quale ha inizio quando un agricoltore decide cosa seminare e sceglie un seme che a sua volta ha una storia, un'identità e un legame con un luogo."
E qui si aprirebbe un lungo discorso sull'accaparramento di terreni agricoli (87milioni di ettari, quando il terreno utile all'agricoltura nel nostro paese è di appena 17 milioni) aldilà di ogni controllo da parte dei cittadini e degli stati dei territori, che i più grandi fondi d'investimento mondiali stanno da qualche anno compiendo, usurpando i diritti degli agricoltori e mettendo a rischio il patrimonio comune di acqua, magari per produrre biofuel, come si chiama oggi. Ma, forse, ne riparleremo.
Vito Rubini