Ph Marco Benecchi
Sempre più spesso il web è fonte di sorprese. A volte difficili da interpretare. La fake new è sempre dietro l'angolo e non sempre è facile discernere. Tempo fa, con qualche dubbio, mi sono imbattuto su una quasi incredibile testimonianza, postata sul sito dello Zion National Park, che per non smentirsi faceva riferimento a "miti" da sfatare, tre per la precisione, a proposito del rapporto fra parchi e caccia negli Stati Uniti d'America.
La materia, anche da quelle parti, è oggetto di diatribe infinite. Come da noi, in buona sostanza. Esempio: La caccia nei parchi è utile o dannosa?
La curiosità è pari alla necessità di una verifica. Per la quale, al momento, mi rimetto a conoscenze superiori alla mia. Intendo dire che, se qualcuno dei nostri esperti lo vorrà, potrà aggiornarci con maggiore dovizia di particolari. Insomma, questa vuol essere poco più che una provocazione per rinvigorire un dibattito su un argomento che a mio parere è dirimente per il futuro del nostro patrimonio naturale. Ovviamente tenendo conto di tutti i distinguo fra la realtà dei nostri territori (superantropizzati da millenni) e gli ancora enormi spazi selvaggi del Nord America.
Il primo mito a cui si fa riferimento, è quello della sicurezza dei parchi "no-kill" (rubo un termine a mio parere troppo abusato dalla pesca) a vantaggio di specie selvatiche, più o meno "opportuniste". Ma, si dice anche in America, quale sicurezza e tranquillità può trovare un animale selvatico "scontroso" in questi parchi superaffollati da turisti, a volte poco inclini al rispetto della quiete e della tranquillità necessaria alle popolazioni animali, senza che le stesse non siano costrette a tralignare dalle loro abitudini ancestrali? Traduco: pur di conservare le proprie (errate) convinzioni, anche gli animalisti d'oltreoceano (senza scomodare la leggenda del Sasquatch-Bigfoot) sarebbero disposti ad accettare una degenerazione del tipo Yogy & Bubu. Non tanto dissimile dai nostri orsi marsicani o trentini, peraltro restii anch'essi a rimanere confinati in un parco, malgrado che legislazione dopo legislazione se ne allarghi il perimetro. Dei cinghiali non parlo, ovviamente: le strade di Roma e di Genova, l'ospedale di Careggi a Firenze sono lì a futura memoria.
Fu un cacciatore, un grande cacciatore, il presidente Roosvelt, in parallelo col saggio ed influente capo navajo, Henry Chee Dodge, a costituire i primi parchi nazionali americani. Dove ancora si favoleggia che la caccia sia severamente vietata, mentre risulta che almeno in un terzo dei parchi nazionali è invece consentita.
E dove, dunque?
Ma nel Lake Roosevelt National Recreation Area, nella parte orientale dello stato di Washington, per esempio, dove è consentita dal Codice dei regolamenti federali. Basta andare a leggersi la 36 CFR, Sezione 7.55 (A).
E nello Sleeping Bear Dunes National Lakeshore, nello stato del Michigan, che prevede periodi di caccia al cervo sull'isola Manitou. Lo dicono i documenti ufficiali, dove si scopre che "Sia i cacciatori che i non cacciatori sono invitati a seguire alcune norme del parco per ottenere un soggiorno piacevole. E questo è un ottimo esempio di come la caccia nei parchi nazionali d'America sia fondamentale per mantenere sana la popolazione di cervi. Dai nove capi immessi nel 1926, si giunse nel 1981 alla bella cifra di 2000 capi, tanto che - dichiarazione del National Park Service - “La vegetazione dell'isola non poteva sostenere uno stock così grande". Per cui, "Riducendo lo stock di cervi con la caccia, l'ecosistema si è notevolmente ripreso."
E nel Grand Teton National Park, nel Wyoming, costituito nel 1950, immediatamente dopo la designazione a parco nazionale fu autorizzata la caccia all'alce su 310.000 acri (la bellezza di 125mila ettari) per regolarne la popolazione e per evitare che in carenza di pascoli gli animali si spostassero in inverno nei più accoglienti territori di Jackson Hole.
Nell'Amistad National Recreation Area, in Texas, che assegna cinque aree pubbliche per il tiro con l'arco e fucili da caccia. In questo parco di 58.000 acri, pari a più di 23mila ettari, si trovano cervi coda bianca, blackbuck, pecari, conigli, mufloni, tacchini.
O nell'Assateague Island National Seashore, nel Maryland, dove si può cacciare su 41.000 acri (circa 17mila ettari) a prevalenza cervi codabianca e Sika.
Insomma, mentre altrove si accetta ordinariamente il principio, lo si chiami caccia o lo si chiami prelievo, da noi si continuano a fare polemiche per gli squilibri faunistici che ci "perseguitano", facendo finta di non sapere che soprattutto in territori come i nostri, fortemente antropizzati e, fin da prima della fondazione di Roma, "civilizzati", se si vuole davvero salvaguardare quella che oggi tutti chiamano biodiversità senza sapere come funziona, bisogna passare a una gestione compatibile fra aree cosiddette "vocate" alla caccia e le aree protette.
Anche se, a mio parere, il gioco è abbastanza chiaro, ormai. Si nasconde la polvere sotto il tappeto, dando la colpa ai cacciatori, mentre si continua a perseguire pratiche irresponsabili, nel nome di un ipotetico progresso che mostra sempre più i suoi limiti.
Più che una Ispra-azione, occorrerebbe un'ispi-razione divina. O una moral suasion comunitaria, sotto l'ombrello di un serio new gree deal.
Voi ci credete?
Raul Coduri