Chi conosce un po' di storia della caccia, e un po' delle vicende di questa nostra passione, così come si spippolano in giro per il mondo, dall'est all'ovest, dal nord al sud, sa - come me, che su queste cose ho provato ad informarmi - come sia difficile contemperare i diversi interessi, che nel tempo e nello spazio si sono confrontati e si confrontano.
Per quello che ci riguarda, nella nostra piccola italietta, qualcuno ha spesso parlato di "anomalia tutta italiana". Si, perchè - tanto per rimanere in ambito occidentale allargato all'Europa ex socialcomunista - in un modo o nell'altro la selvaggina oggetto di caccia è legata al territorio in cui si trova. Con gradienti diversi, è vero, dall'esclusivo e teutonico diritto di prelievo affidato in Germania ai proprietari terrieri, al più edulcorato ma non meno rigoroso sistema anglosassone (USA compresi), al modello spagnolo, caratterizzato da ampie tenute dove la caccia si esercita per diritto esclusivo, alla culla della rivoluzione borghese (Libertè, egalitè, fraternitè) che affida la gestione della caccia alle ACCA (Associations Communales de Chasse Agréées) alle quali la stragrande parte del territorio (salvo qualche eccezione) è dato in concessione dai proprietari terrieri. E così via, anche nell'Europa dell'est, dove i trascorsi statalistici continuano ad assegnare in esclusiva la gestione dei piani di caccia alle associazioni locali di cacciatori (di solito coordinate in associazione unica), alla stregua dei nostri ATC.
Insomma, quando non è il proprietario a decidere in autonomia, sono i cacciatori organizzati. Il concetto di "libero cacciatore in libero territorio", volendo parafrasare il Gioberti, salvo le solite eccezioni, non trova riscontri se non da noi. Attenuato in questi ultimi venti anni da quell'organismo assembleare (pubblico-privato) degli ATC, appunto, che funziona abbastanza dove c'è tradizione di gestione, funziona meno quando l'individualismo è ancora elevato a sistema, non venatorio, ma generale.
Volendo cavillare, chi nei decenni, o meglio ancora nei secoli, ha avuto a che fare con la stanziale di pregio, non solo ungulati, ma anche lepri, starne pernici e coturnici, pur nelle diverse correnti di pensiero, è riuscito meglio a immedesimarsi nei concetti di gestione. Chi invece ha vissuto nel sogno di messianici carnieri di migratori, quando beccacce, quando colombi, quando anatre o tordi, o allodole o...fringuelli, ha pensato che - messianicamente - questo bendiddio fosse in effetti un bendiddio, una manna piovuta dal cielo e quindi a disposizione del primo che - insonne - si fosse alzato presto la mattina e, magari non per caso, si fosse trovato nel posto giusto al momento giusto.
Ma, anche qui, chi volesse spaccare il capello in quattro, potrebbe obiettare - come del resto in molti obiettano - che il suddetto bendiddio non cade per niente dal cielo, ma si affaccia e staziona in quella zona e in quel periodo, semmai fluttuando nei decenni, proprio perchè le condizioni ambientali - disponibilità di ricovero e di alimentazione - lo consentono. In effetti è così per i tordi negli oliveti, per i colombi nelle quercete (ma nel nord Europa apprezzano le coltivazioni di piselli, ad esempio), per le anatre nelle diverse nicchie ecologiche che ne diversificano la presenza. Insomma, visto che i migratori non si muovono a caso, ma perseguono (o anticipano) i loro bisogni vitali sulla base di esperienze consolidate nel tempo, per generazioni, tramandandosi l'un l'altro nella specie le esperienze soggettive e di gruppo, anche per questa/e categoria/e di ornitofauna si potrebbe dire - com'è in effetti - che chi cura e tutela l'ambiente giusto, in pratica garantisce a sè stesso una messe meglio garantita.
E anche qui, come insiste il solito cavilloso, l'intervento dell'uomo che gestisce è determinante. Soprattutto perchè in gran parte d'Europa, ma particolarmente in Italia, la "natura selvaggia" non esiste, avendo la mitica wilderness lasciato il posto da un paio di millenni al più antropizzato "paesaggio". A dimensione più umana, quindi più fruibile, ma anche più prevedibile, pur nelle sue infinite coniugazioni.
Perdipiù, con i tempi che corrono - e corrono, non c'è dubbio - se un tempo neanche tanto lontano, una due generazioni al massimo, in questi territori s'incontravano esclusivamente cacciatori e contadini, oggi sembra d'essere al supermercato, affollato da una congerie di varie umanità, non ultimi quegli scanzonati sedicenti ambientalisti, buzzurri senz'anima, magari supereruditi, analfabeti di ritorno, cresciuti a fette biscottate e televisione.
E allora, la domanda sorge spontanea: nella realtà attuale, con interessi contrapposti e a volte fortemente contrastanti fra loro, come gli attuali, qual è la soluzione per un futuro non dico roseo, ma almeno possibile, della nostra beneamata caccia? Pubblica, ma con gli inevitabili correttivi, o privata? Alla tedesca, alla francese o alla polacca?
Personalmente non ho una risposta soddisfacente. Qualsiasi legge, qualsiasi convenzione, nasce cresce e si consolida adattandosi come un abito a chi nel tempo la deve far vivere, applicare. Mi limito a fare una semplice considerazione: la saggezza è frutto dell'esperienza. Il buon governo del territorio non può essere demandato alla prevaricazione, all'imposizione dall'alto, alla decisione d'imperio.
La cultura del divieto in quanto tale è l'antitesi della democrazia. Ricordo che all'epoca dei referendum abbiamo rischiato che una minoranza organizzata decidesse del nostro futuro di cacciatori. Qualsiasi sia il nostro punto di vista, lo dobbiamo confrontare con quello degli altri, che non sono solo cacciatori.
Voi che ne pensate?
Giorgio Rossi