La caccia sì che è una bella cosa. Ve lo dico io che ne ho passate di primavere. Meglio che non vi dica quante. Da ragazzino, d'apertura, sul sedile di dietro della moto di mio padre, un po' di gabbie alle spalle, un ricovero di fortuna nella piana in cerca di estatini. C'erano anche i rigogoli, allora.
Alla prima licenza, tortore!!! Era metà agosto e apertura generale. Una bella brigata, cinque sei amici, giovani e meno giovani, due tre cani, chi di qua chi di là. Scambiandoci i ruoli, ora col cane, fagiani (di quelli veri) starne, ora dietro una paratina in una stoppia per le tortore, appunto, o all'abbeverata. Una sosta all'ombra, pane e companatico dal tascapane, un vinello, poco, rosso e frizzante, un pisolino, breve, e poi via, fino a sera.
La cartuccera a volte non bastava. A volte ne avanzavano, di cartucce. La caccia è così. Quante volte, nel tempo, sono tornato a casa senza niente. Triste? macchè! Un po' dispiaciuto si, ma pronto a ripartire con più entusiasmo il giorno dopo. Non c'erano giorni di divieto. Un giorno dopo l'altro fino a marzo. Cambiando musica secondo la stagione. Coi primi venti del nord i colombacci, poi i tordi, le allodole, e dopo i sasselli, le beccacce, gli ultimi fagiani, sempre più tosti, il padule. Il padule. Beccaccini, gallinelle, pinzacchi, rari, pavoncelle. Pivieri. La botte per le anatre, alzavole soprattutto, qualche germano, altri becchipiatti dai colori della meraviglia. Fino a marzo, per gambettoni e marzaiole. Infiniti rosari che si spippolavano nel cielo fino a calarsi giù a capofitto sugli stampi, un tripudio di ali e di sogni. E dimenticavo il cinghiale, presenza sempre più preponderante nell'immaginario nostro collettivo.
Ho visto la caccia che cambiava, il mondo, che cambiava. Ho cambiato anch'io, come tutti, abitudini, case, automobili, fucili. Dalla vecchia doppietta all'automatico. Dall'automatico a lungo riculo al presa di gas, al "sistema Benelli". Dal 12 al 20, e anche più in su. Fino a nuove doppiettine che sembrano gingilli, ma che funzionano bene, eh se funzionano! E stivali, scarponi, oggi supertecnologici, come i pantaloni, un tempo il "pilorre", cioè il fustagno (poi declassato a denim, quello dei jeans), il velluto a coste, poi i tessuti intelligenti, l'alta visibilità. La cacciatora, o la tracolla, con la rete incorporata per dare aria alla selvaggina. Ne avevo una di pelle di cinghiale, nera, che conservo ancora insieme a una vera reliquia di tela, di produzione inglese, tutta sdrucita ma di una snobberia unica.
Allora, nel tempo che fu, non c'era bisogno dell'esame di caccia. Cresciuti in campagna, con nonni, padri, zii cugini che ci facevano da guida, le lunghe soste in armeria, al bar, eri già talmente indottrinato ancora prima di prenderla la licenza, che potevi te insegnare a un altro regole e segreti. E il rispetto, che proveniva dalla consapevolezza che tutto quello che vedi in campagna non è natura come la intendono oggi, no! E' saggezza, cultura contadina, fatica, sudore, intelligenza, amore. Da ragazzo, se non lo capivi, arrivava anche lo scappellotto, e così la volta dopo te lo ricordavi.
Passato il '68 tutto cambiò. In meglio, sembrò, per tutti, in peggio è sembrato a molti di noi che della caccia di allora conserviamo memoria. Però, vi dico la verità, succeda quel che succeda, covid o non covid, io ho già preparato tutto. Fucile, cartucce, scarponi, vestimenta. Ho già visto un posticino dove mi preparerò un riparo sperando che ci sia ancora qualche tortora. Non è più quel tempo, ma l'entusiasmo, l'ansia per l'attesa, la speranza per un buon carniere c'è ancora.
Me la voglio godere tutta anche quest'anno. Fanculo la vecchiaia!
Orazio Di Sapio