Ma la migratoria, si può cacciare col sistema della selezione? Una domanda malposta? Chissa! Il fatto è che se dobbiamo affrontare la questione della caccia futura, da noi, in Italia, l’argomento sarà sempre più di stretta attualità.
Il dibattito di questi giorni, innescato dal recente editoriale di Big Hunter, pone seriamente il dilemma. E l’interrogativo che riecheggia fra monti e valli è proprio questo: che futuro avremo, noi cacciatori italiani, migratoristi per eccellenza, se da una parte si continua con l’andazzo delle virulente posizioni anticaccia e dall’altra si prospetta il modello o quantomeno il riferimento mitteleuropeo come unica chance per un domani neanche tanto lontano?
LA RISPOSTA, tanto per venire al sodo, a dispetto di molti che fanno finta che quella della caccia sia una categoria avulsa dal tempo e dallo spazio, la risposta – dicevo – E’ CULTURALE E POLITICA.
Perché culturale?
L’Italia è una lunga penisola, sbarrata al nord da una catena montuosa, le Alpi, e attraversata per tutta la sua lunghezza da un’altra più lieve catena montuosa, gli Appennini . Nel neanche paio di migliaia di chilometri che occupa, da nord a sud, esprime un’infinità di paesaggi, climi, situazioni ecologiche e ambientali. Non si sbaglia se si dice che quanto a “biodiversità” (termine oggi alla moda) non ci manca davvero niente. Insieme ai tremila chilometri di coste, con lagune, paludi, tomboli, pinete, tratti rocciosi, sabbie, la fatica dell’uomo ha modellato e conservato pianure fertili, una rigogliosa macchia mediterranea, ampie estensioni di frutteti, vigneti e oliveti in collina, alpeggi boschi e foreste in montagna. Frutto non solo della natura, lo ricordino i patiti del wilderness (letterale: ambiente selvaggio), ma soprattutto della sapienza, dell’ingegno e dell’impegno dell’uomo.
L’homo italicus, la nostra gente, che – pure - non è un tutt’uno, da diverse migliaia di anni si è adoperato per rendere la natura il più possibile vicina ai suoi bisogni, a sua dimensione. Uomo, che in questi secoli, grazie alla sua operosità, grazie ai commerci, anche per le ricchezze e le bellezze di questa terra, ha prodotto un crogiuolo di etnie, di tradizioni, di contaminazioni. Fenici, greci, cartaginesi, nordafricani da sotto e franchi, celti, longobardi, normanni, da sopra hanno plasmato quello che oggi con un solo aggettivo viene definito nazione italiana. Bella, bellissima cosa, la nostra identità di nazione. Ma se vai a leggere nei volti, negli occhi, sulla pelle, nei modi dei nostri connazionali, vedrai che la “diversità” è ancora ben riscontrabile. E l’insieme di queste diversità, naturali (clima, paesaggio) e antropologiche portano a dare una risposta chiara anche alle diverse tradizioni di caccia. Che sono figlie, anch’esse, della loro storia. La “caccia alta” (cervi, et similia) ai signori, la “caccia bassa” (lepri fagiani starne e migratoria) ai borghesi e ai “villani”. In sostanza, quando si parla di caccia popolare, legata alla tradizione, si parla soprattutto di caccia alla piccola selvaggina, e in particolare di caccia alla migratoria. Il progresso e il benessere diffuso, in questi ultimi cinquant’anni, hanno fatto il resto, creando anche molta confusione.
Perché politica?
Anche qui, il progresso e il benessere degli ultimi cinquant’anni hanno fatto la differenza. Nel dopoguerra, i nostri cacciatori erano in sostanza i “signori di campagna”, che cacciavano soprattutto per diletto, e i“contadini”, che occupavano il poco tempo libero e nello stesso tempo integravano la dieta della famiglia insidiando lepri, pernici, tordi, beccafichi. L’inurbamento, conseguenza dell’abbandono delle campagne per il lavoro in fabbrica, portò anche squilibri esistenziali. L’operaio (o l’impiegato), col salario sicuro e il portafoglio un po’ più gonfio, mantenne i legami con i suoi luoghi d’origine e con le sue abitudini. Nel frattempo, però, il diffondersi dei mezzi di trasporto e il “bisogno” di svago contagiò le masse, per cui la campagna, prima appannaggio di chi ci viveva stabilmente e di una sparuta minoranza di “cittadini”, portò milioni e milioni di persone a sciamare senza un briciolo di consapevolezza per boschi, prati e sentieri. Ecco che oggi, a mezzo secolo di distanza, il territorio extraurbano un tempo esclusivo dominio di poche persone che si erano fatte una cultura naturalistica e sperimentando direttamente i misteri e le meraviglie del creato, si trova invaso da milioni di ignoranti che si dicono naturalisti solo perché hanno fatto indigestione delle storielle che raccontano personaggi come Tozzi o come la Colò.
Inevitabile che i nostri rappresentanti pubblici, sempre meno pervasi di ideali e sempre più intrisi di sete di potere, abbiano fiutato il vento e si siano confezionata una “fedina” politica verde come le cravatte di Bossi. Bossi, le cui schiere, peraltro, sono le uniche che nella loro rusticità (a volte deleteria, come nel caso della rovinosa vicenda della Comunitaria) si professano ancora totalmente collegate alla campagna, alla caccia e ai cacciatori (sottosegretario Martini, esclusa, ovviamente). Mentre gli altri schieramenti, dai bianchi agli azzurri ai rossi (i Verdi sono scomparsi, ma sarebbe meglio dire che si sono infiltrati negli altri partiti), si professano amici della natura e soprattutto degli animali, distinguendo però fra buoni (i cuccioli di capriolo, per esempio) e cattivi (le zanzare, per esempio). La politica, quindi, farà la differenza nei prossimi anni: noi siamo sempre meno, e il popolo bue che rumina ambientalismo televisivo sarà sempre di più. Hai voglia che fare lobby, hai voglia che organizzarti. Se non t’inventi una strategia nuova, una cultura nuova, una filosofia nuova, l’orizzonte è quello!
E’ indubbio però, che sostituire le nostre tradizioni venatorie con quelle della mitteleuropea, oltre che una sciagura, è materialmente impossibile. Una cosa invece è possibile. Rivitalizzare il nostro popolo, rinfrescare le nostre menti di cacciatori mediterranei facendo tesoro però delle sensibilità, dei metodi e dei comportamenti di chi – a casa sua – gode di buona stampa. Al contrario di noi, che siamo additati come gli unici reprobi che attentano all’integrità del patrimonio naturale del nostro paese.
Qui intanto si deve perentoriamente sostenere una realtà dai soliti furbi sottaciuta. La fauna selvatica italiana non corre alcun pericolo. Almeno a causa della caccia. Colti o incolti che si possa essere definiti, grazie a noi cacciatori e alle leggi che regolano la nostra attività, in Italia abbiamo la percentuale più alta di territorio interdetto alla caccia. Con punte che in Abruzzo sfiorano il 70% e mediamente si aggirano al di sopra del 35-40%. Della selvaggina stanziale non è neanche il caso di parlare: molte regioni si stanno attrezzando per considerarla “dannosa” all’agricoltura. Sfido invece chiunque a sostenere che specie migratorie come quelle oggetto delle nostre tradizioni di caccia, con tanto territorio protetto distribuito uniformemente per tutta la penisola, non trovino sosta e alimentazione a sufficienza e la necessaria tranquillità anche nel periodo della riproduzione.
Fatta la premessa, veniamo al conquibus.
Gli ambientalisti nostrani
L’amore per la natura, la tutela della fauna e del territorio, la condizione di naturalista, fino a mezzo secolo fa era esclusivo appannaggio dei cacciatori. Senza andare indietro fino a Federico II, basta leggere le riviste venatorie, a partire dall’ottocento, per rendersene conto. Lì, in quelle riviste, si trovano anche tutte le ragioni delle nostre diverse tradizioni di caccia. Diverse fra loro e diverse da quelle di gran parte degli altri paesi d’Europa. La spaccatura ha una data. Quella della fondazione del WWF Italia, conseguente sì alla minaccia di nuovi e diversi pericoli per la fauna e l’ambiente, ma figlia di interessi ben precisi. Uno fra tutti, il diritto di caccia, allora come oggi regolato dall’art 842 del C.C. Con la massa dei cacciatori decisa a eliminare le riserve di caccia, e i riservisti ovviamente impegnati a difenderle, insieme al patrimonio faunistico di cui erano ricche, e probabilmente già in grado di ipotizzare che un numero così alto di cacciatori avrebbe potuto costituire una nuova fonte di reddito per l’impresa agricola che registrava i primi segni di crisi. La riprova? I fondatori del WWF erano praticamente tutti cacciatori. Anche qui, basta scorrere le pagine di “Diana” dell’epoca per scoprire le cronache venatorie dell’ineffabile Fulco Pratesi (poi disse di essere stato folgorato sulla via di Damasco, anche se c’era chi giurava che continuasse in tutta riservatezza a praticare la caccia) insieme ai suoi roboanti inviti ad aderire alla nuova associazione ambientalista. I successivi e reiterati tentativi legislativi e referendari, tutti sostenuti dal WWF, non miravano infatti all’abolizione della caccia nel Belpaese, ma semplicemente – in maniera più o meno chiara – all’abrogazione dell’842. Poi anche qui subentrò la politica. Nacquero nuove sigle ambientaliste, legate a questo o a quel partito. Era cominciata la battaglia per l’accaparramento delle coscienze e dei voti.
La tradizione. E di conseguenza le cacce tradizionali.
C’è chi sostiene che certe cacce ai piccoli uccelli non fanno parte della tradizione, perché troppo giovani; fino a un paio di secoli fa – dicono -il fucile da caccia non c’era: gli uccelletti si insidiavano con altri mezzi, trappole, reti, panie, lacci (oggi tutte pratiche proibite). Per la stessa ragione, allora, non si dovrebbe parlare nemmeno delle “tradizioni” venatorie mitteleuropee, anch’esse fino a prova contraria praticate con armi da fuoco. Legate alla tradizione fino nell’anima, quindi, le nostre cacce ai piccoli migratori, come testimoniano già i latini, duemila anni fa, e sù sù fino a noi, attraverso i secoli. Il testo più noto è quello dell’Olina, del Seicento, che ne illustra le diverse tecniche, riprese da numerosissimo autori. Famoso, nella seconda metà del Novecento, “Il Capanno” dei fratelli Santini. Col boom economico, alle vecchie pratiche (appostamento, richiami vivi in gabbia, richiami a bocca o a mano, zimbelli, fissi o mobili, comuni anche alla caccia agli acquatici e ai colombacci, specchietti e altri marchingegni), si sono aggiunte quelle dei cosiddetti “bruciasiepi” (al secolo: i migratoristi vaganti) che altro non sono che quei cacciatori dei secoli trascorsi che battevano siepi ripe e boschetti con reti e altre diavolerie (frugnolo, diluvio, diavolaccio), oggi sostituite dal moderno “automatico”. Quanto alla “divisa”, platealmente ostentata dai cacciatori della mitteleuropea e oggi anche da parte dei nostri “selettori”, quella altro non è che un comune costume locale di una bell’epoque campagnola, che sicuramente circonda chi lo indossa di un indubbio alone di nobiltà, e in ogni caso evidenzia un chiaro collegamento con la tradizione e la cultura del posto.
Ma perché, allora, da noi questo bisogno di vestirsi tutti uguali non esiste? Perché, in ogni caso, visto che di certo serve a darsi un’identità, non proviamo una volta per tutte a ipotizzare una soluzione? Una risposta esauriente, definitiva - come al solito – non esiste. D’altra parte – chi può smentirlo? - anche in altri paesi d’Europa, Francia, Spagna, Grecia, Inghilterra, una divisa vera e propria non esiste. Molti vestono casual, altrettanti vestono country, ma niente divisa. Si assiste invece, come da noi del resto, ad un affinamento del gusto, dello stile, che rispecchia la moda. E su quello bisogna insistere. D’altra parte, anche se ci volessimo collegare agli abiti dei nostri cacciatori dell’Ottocento (vestirsi come i Borbone, sarebbe davvero ridicolo), dal Veneto alla Sicilia le fogge sarebbero ben diverse. E non mancano, al sud come in Maremma, vecchie sartorie specializzate in abiti “da campagna”, che i nostri contemporanei più abbienti e più sensibili allo stile non mancano di sfoggiare a caccia e nel dopocaccia. In sostanza, ormai non c’è cacciatore italiano che non abbia un suo stile anche nel vestire, più o meno ostentato. Il resto, la qualità, il gusto, il segno “aristocratico”, l’identità local, col tempo arriveranno. Ultima annotazione, tempo fa ci fu una levata di scudi per un bambino con un fischio da anatre in bocca e un vestitino da caccia in tessuto mimetico. Ma cos’è la verde divisa dei nobili cacciatori delle Alpi, se non una “mimetica”? Non richiama forse la foggia e i colori degli stessi “Alpen schutzen”, piuma di gallo forcello inclusa?
Migratoria di selezione.
Sembra un eresia, ma è quello che fanno da sempre i migratoristi italiani. La prima selezione avviene sul territorio. Se più di un terzo è interdetto alla caccia, ecco già dimensionato a un terzo il “capitale”, ovvero il patrimonio di biodiversità faunistica su cui anche gli ambientalisti, anche gli animalisti dovrebbero porre la loro attenzione. E anche i popoli del nord Europa che a ogni primavera si fanno infinocchiare dai loro mezzi d’informazione, quando invitano i loro concittadini a non frequentare più le spiagge ne a visitare i musei di un popolo che distrugge i “loro” uccelli canori. Ma la questione, come è chiaro da tempo, puzza più di sapiente, spietata e ben orchestrata campagna di marketing, per dirottare altrove i flussi turistici. Trappola in cui peraltro i nostri concittadini dell’Unione non cadono, se è vero come è vero che a Rimini o a Lignano Sabbia d’Oro in estate si parla ancora tedesco, danese, svedese, olandese. E il merito non è certo della Brambilla… Mentre le nostre aree protette, interdette alla caccia, sono le migliori in quanto a qualità ambientali. E quindi consentiranno ai migratori, di passaggio o in sosta, “nostri” e “loro”, di riposarsi e rifocillarsi, meglio che a casa della stessa Brambilla. La seconda selezione la fa la legge. Che permette solo ed esclusivamente carnieri limitati. Bastaa dire che negli ultimi vent’anni i cacciatori sono più che dimezzati, i carnieri sono stati sempre più ridotti da leggi, leggine e regolamenti, (nota: tanto che la “piccola quantità” non è più ascrivibile alle deroghe, ma alla caccia ai migratori in sé e per sé) e le aree di non caccia sono cresciute a dismisura, ingiustamente e senza vantaggi per nessuno. La terza selezione è un fatto di tutela e protezione degli habitat. La facciamo noi stessi, cacciatori, che non siamo quegli assetati di sangue come certuni ci vogliono far apparire. Che anche con la partecipazione agli ATC ci preoccupiamo di tutelare l’ambiente, garantirlo integro (per tutti, non solo per noi), mantenerlo ricco di pasture per la selvaggina, mantenere laghi e paludi per anatre e trampolieri, rimborsare i danni agli agricoltori: frutteti, oliveti, orti, campi, sono saccheggiati non solo da tortore tordi, colombacci, corvidi ma anche e soprattutto dagli storni, che com’è noto da noi, e solo da noi, non sono oggetto di caccia, grazie a cervellotiche decisioni di sedicenti scienziati nostrani. Fra parentesi, gli ATC ci preservano dai mai sopiti tentativi di abrogazione dell’842. Il problema non è quindi eliminarli, ma semmai farli funzionare meglio. E con l’avvento della rete, chissà che presto non si possa rispolverare anche il vecchio concetto di “bella vita vagabonda”, tanto caro a Eugenio Barisoni, Gin Bardelli, Piero Pieroni. Di questa tutela attiva avrebbero dovuto occuparsi anche i nostri governanti, i nostri amministratori, i nostri serafici ambientalisti, all’indomani dell’acquisizione nel nostro ordinamento legislativo della Direttiva comunitaria “Uccelli” (noto anche come 409/79). Che dettava, ricordiamolo, e detta soprattutto obiettivi di ripristino e manutenzione ambientale per la conservazione della fauna selvatica. E invece, demagogicamente, hanno pensato bene di porre limiti ai prelievi. Solo ed esclusivamente limiti.
I cacciatori e la società.
Come coprire allora questo gap che ci divide da un’opinione pubblica ostile? Perché altrove, in Europa, anche in quella mediterranea, i cacciatori sono considerati “amici” e da noi invece abbiamo un indice di gradimento piuttosto scarso? Riusciremo a far valere le nostre ragioni? Non è impossibile, anche perché le percentuali sbandierate da certi sondaggi animalisti non stanno in piedi. Non trovano riscontro sul territorio, dove invece, soprattutto in provincia, la caccia è tollerata dalla stragrande maggioranza dei nostri concittadini e da molti ancora apprezzata. Chi ci conosce sa che per l’ambiente se non ci diamo da fare noi, arricchendo sensibilmente le schiere del volontariato, non c’è storia. Il problema è che chi non vive stabilmente in campagna conosce solo la realtà che gli viene propinata ogni giorno dalla televisione. E in televisione prolificano le sirene anticaccia, i loro sorrisi, le loro minacce. Le loro balle stratosferiche. Ma di questo oltre che a dolerci, ci dobbiamo render conto. La calunnia è un venticello che s’insinua lentamente nei pensieri della gente e quando esce allo scoperto ormai è tardi. Si fa fatica a ristabilire la verità. Soprattutto nel breve periodo. Occorre adottare una strategia di medio termine, che imposti un’azione avvolgente nei confronti di tutti gli strati della società, utilizzando al meglio tutti i mezzi con cui oggi si orientano le opinioni. Ma soprattutto, bisogna essere in grado di vendere un prodotto (la caccia e i cacciatori italiani) appetibile, che dia l’idea di quello che siamo. Per ora non ci siamo riusciti. Perdipiù le recenti contrapposizioni hanno fatto precipitare la situazione. L’avversario, subdolo come chiunque sia in palese malafede, è pericoloso. Dispone di “armi” più moderne delle nostre. E le sa adoperare. Per questo, dobbiamo prima di tutto fornirci di strumenti altrettanto sofisticati. Di nuovi metodi, di nuovi cervelli, di nuove strategie, di nuovi convincimenti. Prima ci renderemo conto dei nostri handicap, prima saremo in grado di superarli. Con coraggio. Se lo sapremo fare, le nostre buone ragioni non resteranno misconosciute.
Guido Monaco