Una delle tante ragioni della crisi dell'associazionismo venatorio dipende - in via di principio, con qualche eccezione - dal non aver capito che la specializzazione andava e va governata.
Negli ultimi venti-trent'anni, abbiamo assistito al proliferare di multiformi sodalizii legati a questa o a quella specialità di caccia.
In principio era l'Uncza, che - pur sotto l'egida di Federcaccia, ancora oggi associazione di riferimento - portò all'aggregazione dei cacciatori di tutto l'arco alpino e al conseguente consolidamento di norme che quell'area interessavano.
Il Club della Beccaccia fu l'anteprima di un gruppo di appassionati, un club appunto, come il Club del Beccaccino (poco più che padano), che dette vita in seguito, per via di punti di vista a volte contrastanti, a una serie di associazioni e sub associazioni di "beccacciari". Stessa strada fecero i patiti del colombaccio, in confraternite une e trine.
L'Urca si sviluppò parallelamente, emanazione dell'Uncza, l'una e l'altra riferimento ideale dei cacciatori di selezione, a mano a mano che sull'Appennino si appalesava il capriolo.
Pro Segugio e successivamente Segusti hanno storie più consolidate, con la prima che ha dato i natali all'associazione/non associazione più consistente e più nodale di tutte: quella dei cinghialai, una realtà diffusa, quasi impalpabile, che alla luce delle odierne vicende appare complicata, vista la proliferazione dell'irsuto abitatore della macchia difficilmente arginabile, la congrega degli ambientalisti/animalisti sempre più irresponsabili, una politica affetta da sempre più supina acquiescenza, e non ultimo il rissoso conflitto fra categorie (agricole e venatorie), danni reali o presunti compresi.
Ecco che oggi, tralasciando i tanti altri piccoli sodalizi, chi deve organizzare il settore si trova a dover mediare fra tutte queste compagini quasi sempre in concorrenza l'una con l'altra. Con l'aggravante che l'attuale congiuntura politica porta con sè il virus dell'attaccabrighe per partito preso, qui declinabile con le categorie del tesseraggio, dell'indisponibilità ad accettare legami territoriali in nome della libertà di caccia, del giusto sostegno ai tanto diffusi quanto trascurati sentimenti filo-migratoristi.
C'è rimedio? Finchè c'è vita..., come si dice in questi casi nel modo più banale possibile...
Ma come, allora? Beh, dal dire al fare il salto è lungo, ma chi ha responsabilità se ne deve far carico. E' il momento, per i nostri dirigenti, tutti, di prendere finalmente coscienza della situazione e di comportarsi di conseguenza. Prima tappa, lo sappiamo tutti, è lo scoglio elettorale del 4 marzo. Guai a inciamparci. Sembra che il primo passo sia stato fatto con la costituzione di quella cabina di regia alla quale hanno aderito la stragrande maggioranza delle associazioni venatorie. Pochi punti su cui convergere, indirizzi chiari su cui impostare una campagna di sensibilizzazione, il coinvolgimento totale delle periferie.
E poi? Poi, a prescindere dai risultati, sarà opportuno non smantellare il sistema, ma, passo passo, accompagnarlo verso una piattaforma sempre più articolata che riesca a dare un'amalgama alle multiformi sfaccettature della caccia italiana, dal nord al sud, da quella popolare a quella elitaria, ma soprattutto che sappia giungere alle corde dell'opinione pubblica, presentandasi - finalmente, verrebbe da dire - per quello che è: una risorsa per tutti, affrancata da quelle raffigurazioni critiche che non ci rendono giustizia.
A supporto di queste aspirazioni miglior cura non c'è se non quella di andare in massa a votare. Consapevoli che la partita si gioca più che mai in Parlamento, dove dobbiamo avere persone responsabili che ci rappresentino. Con una raccomandazione. Mettiamo per una volta da parte le rivalità, politiche, ideologiche, venatorie. Fra le migliaiai di candidati, collegio per collegio, ci sarà senz'altro qualcuno che ha simpatia nei nostri confronti e nel contempo ha qualche probabilità in più di altri di venire eletto. Teniamone conto.
Vito Rubini