Riteniamo di rirproporre come editoriale questo articolo di Daniele Ubaldi già apparso nella rubrica dedicata alla cinofilia di questo portale, perchè contiene spunti e considerazioni che crediamo appartengano al più vasto pubblico di questo sito.
E' l'università della caccia con il cane da ferma, rappresenta il massimo dal punto di vista cinofilo poiché richiede fondo, coraggio, senso del selvatico, naso e delicatezza nella presa di punto: la montagna racchiude, con i suoi misteri e i suoi tesori, tutto ciò che necessita a un cane da ferma per diventare un Cane da Ferma. Sempre più parche di soddisfazioni poiché carenti di gestione e cura, le alture rappresentano il master dell'ars venandi, per uomini e cacciatori. Dai rari voli di coturnici ai miraggi delle starne "dell'anno scorso" fino al miracolo della lepre, cercata a lungo dalla muta e poi, improvvisamente, bloccata in una pietraia da una valida coppia di fermatori. I monti sono questo: fatica, preparazione, scarponi consumati, chilometri percorsi e poi rari, rarissimi e improvvisi incontri con selvatici veri, verissimi o al limite simil-veri, ma mai banali.
Il discorso è valido tanto per il cacciatore quanto, appunto, per il suo ausiliare. Avere la fortuna di abitare non troppo distante da montagne importanti e vive, la forza mentale e fisica di volerle attaccare e una grande passione per i cani da ferma, sono i tre elementi che consentono all'appassionato di bruciare le tappe. La montagna, infatti, e solo quella sarà la via della selezione. Si possono, infatti, possedere tre o quattro bravi cuccioloni che hanno dimostrato tutti di possedere le doti di base per l'avvio di una carriera da cacciatori: tuttavia, sarà la prova dei "sassi ammucchiati", delle montagne appunto, a metterli in fila uno dietro l'altro nel volgere di tre o quattro uscite, a differenza delle sgambate in collina o pianura nelle quali, inutile a dirlo, spesso si assiste a fughe in avanti di uno o dell'altro e poi recuperi all'uscita successiva.
La montagna tutto questo margine non lo concede: chi ha maggiore stoffa e voglia emerge da subito, o quasi. Perciò, una selezione che sarebbe durata una o più stagioni si riduce a qualche settimana se fatta in montagna, con i diavoli che fanno la differenza in misura netta rispetto agli onesti fermatori, buoni magari per tanti bravi cacciatori della domenica che vogliono godere azioni in stile, consensi, recuperi e riporti ma che non hanno necessità né febbre di assaltare la montagna.
La montagna, appunto. E i suoi tesori sempre più rari. C'erano una volta le starne, abituali regine della bassa, media e alta collina e che, a loro piacimento, potevano persino spingersi oltre i 1500 metri, fino a incrociare - e addirittura a lasciarsi più in basso - sua maestà il re cotorno, signore delle rocce e degli strapiombi. Le starne, come sanno tutti i cinofili da ferma con i capelli almeno sale e pepe, erano le vere maestre per qualsiasi fermatore degno di tal nome: unite, coordinate, difficilmente sbrancabili, erano in grado di far sudare il cucciolone come il cane adulto, a seconda dell'avanzamento della stagione. Ora non esistono più, ma non (solo) per colpa della caccia incontrollata: è l'habitat stesso che è andato scomparendo, insieme alle colture in quota, alla pastorizia ovina e - soprattutto - alla volontà di tenerle nella nostra biodiversità. Quanti parchi e parchetti esistono, in Italia, dove da decine di anni non si pratica la caccia? Eppure in nessuna di queste aree protette v'è traccia di starne, ad eccezione di quelle introdotte - di straforo - da alcuni appassionati. Ma ancora oggi, pur se non si tratta di animali realmente selvatici, incontrare un branchetto di "grigie" vuol dire esaltare tutte le doti dei nostri ausiliari, facendone emergere le eccellenze come anche le lacune. Insomma, se un tempo anche le starne erano l'università del cane da ferma, ancora oggi se gestite in maniera intelligente possono rivelarsi un buon esame di maturità.
C'è poi il re cotorno, come si diceva poco fa. Come non amarlo? Eppure, "grazie" alle gelosie dei cacciatori, alle gestioni infelici e al più ideologico spirito anticaccia che domina la gran parte delle aree protette italiane, le coturnici stanno scomparendo anche dalle quote più alte e immacolate della Penisola. Prive di colture in alta montagna, con il pascolo ovino ormai rarefatto e sostituito da quello bovino ed equino, le coturnici sopravvivono a stento in alcune aree dell'Appennino centrale, dove un tempo prosperavano. E attenzione: nei pochi punti in cui esistono questi animali, non si apprezzano particolari differenze di densità laddove la caccia è interdetta da 50 anni rispetto alle vette in cui ne è da sempre ammessa la pratica. Questo perché gli animali, a primavera, comunque si spostano e colonizzano altri areali favorevoli ma anche, sia chiaro, perché la presenza di un elemento di disturbo - come l'uomo e i suoi cani da ferma - obbliga le coturnici a compiere molti spostamenti nell'arco della stagione, entrando spesso in contatto con altri soggetti provenienti da zone diverse, dunque portatori di scarsa o nulla consanguineità. Ciò rende la riproduzione più favorevole e in salute, al contrario di quanto avviene in numerose aree protette nelle quali questi animali sono vittime del ceppo chiuso, e destinati ad un lento ma costante declino, come sta avvenendo in moltissimi parchi anche nazionali. Eppure basterebbe davvero poco, per salvare questi "fossili viventi"... Qualche coltura a perdere di pochi metri quadri al posto di piccoli pezzetti di prati sommitali, sfalcio costante della montagna laddove la pastorizia non compie più il suo dovere, incentivazione della pastorizia stessa: se a ciò, poi, si aggiungessero piccoli scambi di soggetti adulti e pronti per la riproduzione, piccoli scambi da un parco nazionale all'altro, la coturnice andrebbe riprendendosi nel giro di poche stagioni. Si è ancora in tempo per intervenire: quel che manca è soltanto l'interesse di chi detiene i fondi per la gestione della biodiversità.
Digressioni nostalgico-polemiche a parte, sono proprio i cotorni a determinare se un ottimo cane da ferma sia o no anche un ottimo cane da montagna: ciò non tanto per la difficoltà che l'ausiliare incontra a reperirne l'usta, che è molto forte e dunque facilmente rintracciabile, almeno nelle aree di pastura; quanto per tutto ciò che avviene dopo che il cane ha intercettato la passata delle coturnici. Guidate interminabili, oggettiva difficoltà a mantenere lo stile di razza senza perdere il contatto con il selvatico, voli quasi sempre fuori tiro, rimesse inimmaginabili. E' allora, e soltanto allora, che si potrà valutare davvero quanto il cane da ferma che abbiamo per le mani può diventare Cane da Ferma. Perché per la montagna si può anche non possedere un olfatto imbattibile, oppure un fondo non infinito pur se eccellente, come anche un collegamento non eccelso anche se presente; ma c'è un requisito, uno soltanto, che è imprescindibile per salire fin lassù: volerle. Volerle. Soltanto il cane, e il suo conduttore, che le vorrà davvero potrà dirsi degno dell'appellativo "cacciatore di montagna". Volerle dall'inizio alla fine, dall'alba al tramonto, da canto a canto senza tregua, senza risparmiarsi mai: questo serve per giocare in Champions', questo occorre per lasciarsi alle spalle, duemila metri più in basso, distese di terreno morbido ricco di fagiani e starne pronta-caccia, di quaglie di ricasco e di lepri rimesse dei granturcheti, insieme a migliaia di uomini e cani che camminano alla ricerca di queste prede. Guardare tutti dall'alto, stringendo tra le mani quasi sempre il sogno, raramente Lei.
Ecco: il cacciatore di montagna non soltanto è laureato all'università della caccia, ma ha abdicato da tempo al carniere preferendo concentrarsi sulla qualità della sua passione. Allo stesso modo, il cane da montagna non dovrà essere di quelli che hanno bisogno di continui stimoli - e di molti incontri - per tenere vive passione e concentrazione. Una volta istradati, i cani da montagna non hanno bisogno di nient'altro che di sassi ammucchiati: sono loro che portano a caccia voi.
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