In principio fu Monsù Ferrero. Piemontese del Piemonte Profondo. Se lo cercate su internet, spero che abbiate più fortuna di me. C'ho provato, ma dopo una ventina di minuti mi sono arreso. Sembra che non sia mai esistito. Eppure – a leggere le cronache non solo della stampa venatoria, negli anni settanta - è stato il padre di tutte le battaglie contro i cacciatori in Italia.
Prima di Pratesi, discepolo storico del primo presidente del WWF Italia, il Marchese Incisa della Rocchetta, che fece scoprire il Panda inchiodandolo all'ingresso della sua Bolgheri, fino ad allora mitico riferimento della cinegetica italiana ed europea. Prima dell'immarcescibile prof. Consiglio, ancora sulla breccia con la LAC, assiduo infilzatore di coleotteri e lepidotteri, ma strenuo avversario di quei poericristi di cacciatori, assurto alle cronache televisive per aver fatto perdere la faccia anche a Maurizio Costanzo (contro i cacciatori fin dalla prima ora), che l'aveva invitato – mal gliene incolse - per perorare la causa degli anticaccia in uno storico dibattito televisivo vinto sei-zero sei-zero sei-zero da Alberto Chelini, segretario generale dell'Unavi di allora. Prima di Celentano, anche lui sempiterno predicatore a tariffa non agevolata - come gli strafighi predicatori/santoni americani/indiani che scappano in riccònia col malloppo (e decine di bionde), dopo aver turlupinato per anni migliaia di cre-denti/duloni - il quale Adriano, servendosi della televisione di Stato, registrò uno dei più grandi insuccessi della sua carriera, convinto che scrivendo su una lavagnetta i buoni (gli anticaccia) e i cattivi (i cacciatori) si potessero portare gli italiani a votare contro la caccia.
No. Prima di tutti questi, poco accorti, anticacciatori, ci aveva provato il dimenticato da dio e dagli uomini Monsù Ferrero, agricoltore, savoiardo convinto, che disseminava il suo terreno di trappole e pompette schizzabottino, per impedire ai cacciatori della Repubblica di calpestarlo impunemente, con cui pensava di dissuadere i cacciatori dall'entrare nella sua proprietà in cerca di fagiani e pernici.
Come appare chiaro anche ai più sprovveduti, queste, tutte queste, non furono campagne contro la caccia, ma guerre nei confronti dei cacciatori, per riportare la disponibilità dell'attività venatoria – a ragione considerata una risorsa economica – sotto il controllo dei proprietari dei terreni dove la stessa si svolge. In un modo o nell'altro insomma, un tentativo, per ora mai riuscito, di abrogare l'articolo 842 del Codice Civile, che – tuttora - consente a chi dispone di una licenza di caccia di esercitarla, la caccia, su tutto il territorio nazionale, salvo i limiti e le condizioni previste dalla legge, senza che i contadini lo rincorrano coi forconi. Niente di male, per carità! La privatizzazione della caccia è un punto di vista più che legittimo, e per certe correnti di pensiero, anche recentemente espressi in Parlamento, utile alla caccia stessa e alla società nel suo insieme. Tanto più, si dice, che quest'attività è così regolata nella maggior parte dei paesi europei e, in genere, nel mondo. Pur se con correttivi sociali più o meno evidenti, bisogna tuttavia aggiungere, soprattutto in quelle nazioni – Francia e Spagna in testa - dove, come da noi, la caccia è una realtà “popolare”.
Ecco, fra questi innumerevoli tentativi di privatizzazione, nel 1987, ormai un quarto di secolo fa, un comitato dei soliti “benpensanti” piemontesi (difficile tuttavia non pensare che dietro non premessero le stesse logiche privatistiche), raccolsero firme sufficienti per richiedere di sottoporre a referendum la legge della loro regione. S'andò avanti con opposizioni e contropposizioni di varia natura, fino a che tale Paola Ferrero (sarà mica parente di tale Monsù?), giudice civile del Tribunale di Torino, con sentenza n. 6156/2008 (ribadita in Corte d'Appello nel dicembre 2010 e confermata recentemente dal TAR), decise che il referendum s'aveva da fare. Questo, nonostante che nel frattempo la legge nazionale e la legge regionale fossero state cambiate. Nonostante che nel frattempo si fossero celebrati diversi, ma diversi, referendum sulla caccia, promossi più o meno da soggetti di analoga matrice pseudoradicaleggiante: Partito Radicale, Verdi, movimentisti, ecologisti. Nonostante che tutta questa gente sia stata ormai smentita dalla storia. Almeno nel nostro paese. Nonostante che questi referendum e i loro promotori, tutti, quale per una ragione quale per un'altra, siano via via risultati sconfitti, sia sul piano del diritto, sia sul campo. Non uno o due, ma tanti. E' bene ricordarlo agli smemorati. In particolare, due referendum regionali (Trentino, 1984, vinto ai punti dai cacciatori; Emilia Romagna, 1990, vinto dai cacciatori per mancanza di quorum, dopo che nel 1985 la prima richiesta non era stata ammessa) e tre nazionali: due nel 1990 e uno nel 1997, tutti per quorum non raggiunto, dopo che nel 1986 un referendum sul porto d'armi fu bocciato dagli elettori con un sonoro 86%, e altri non furono ammessi dalla Corte. A riprova del fatto che, a ben guardare, questa antipatia nei confronti dei cacciatori da parte degli italiani è tutta una fantasia propalata ad arte dai soliti furbi e abili manipolatori dell'informazione.
E proprio di questo, del fatto che gli italiani in gran parte non sono visceralmente ostili nei confronti di una categoria che è parte integrante della nostra cultura di popolo, si dovrà tener conto anche nella tornata referendaria del 3 giugno.
In primo luogo sarà da respingere qualsiasi tentativo di modificare la legge per evitare la consultazione. Non c'è storia, infatti. Solo una riduzione categorica del modo di cacciare e delle specie cacciabili troverà il via libera dell'autorità preposta a darvi il benestare. Quindi, tanto varrebbe chiuderla, la caccia, in Piemonte! Quanto al risparmio per le casse dello Stato, chi dopo venticinque anni, e per venticinque anni, ininterrottamente ha voluto che questa sfida arrivasse a compimento, beh, che se la prenda tutta questa responsabilità di aver voluto sprecare i soldi dei contribuenti. Il referendum hanno voluto, e il referendum si becchino. Tutto intero. Sarà un'altra (ir)responsabilità che andrà appioppata a questi singolari figuri. Non penseranno certo di dar la colpa ai cacciatori anche di questa follia.
Ma soprattutto bisognerà impegnarsi per dissuadere la gente di recarsi a votare. L'obbiettivo del non raggiungimento del quorum è ampiamente a portata di mano. Se si pensa che per l'acqua e il nucleare, in Piemonte, sono andati a votare in meno del 60%, e che al primo giorno l'affluenza era poco al di sopra del 40%, è altamente improbabile che questa volta, che si voterà solo un giorno, a cavallo del ponte del 2 giugno, con le famiglie in gioiosa libera uscita per spiagge prati e boschi, debba scoppiare la fregola del voto, per un argomento, diciamolo, che oggi non è in testa ai pensieri degli italiani e nemmeno, ridiciamolo, dei piemontesi.
Vito Rubini