Prima o poi lo dovremo affrontare. E' sicuro! Ma cosa? Come, cosa? Ma il problema del rapporto fra caccia e agricoltura. Va bene che l'agricoltura è un settore primario, va bene che proprio per questo ha ancora un grande peso sull'economia e nella società, si mangia almeno tre volte al giorno e oltre a dar da mangiare alla gente, oggi dà un grande apporto all'economia del Paese, che prospera grazie al mix fra storia arte cultura e turismo, fecondo di "colli per vendemmia festanti" e di "convalli popolate di case e d'oliveti", e di "migliaia di fiori che al ciel mandano incensi", per dirla col poeta. Borghi, boschi e campi, insomma, ricchi di quella bella gente che ancora li fa vivere. D'accordo! Siamo d'accordo, ci mancherebbe. Però...
Però, una domanda, anzi più di una ce le dovremmo fare. Si , perchè non ci spieghiamo altrimenti come mai buona parte del territorio italiano è maltrattato, se non abbandonato: lasciato "alle ortiche di deserta gleba", senza che più il sole fecondi quella "bella d'erbe famiglia e d'animali". Insomma, tanto è l'ambientalismo professato in questi nostri palazzi che spesso risulta difficile spiegarci perchè da tanti anni a questa parte non facciamo altro che perdere suolo fertile. E le nostre "chiare e dolci acque"? Lasciamo perdere. Sono ricche si, ma di sostanze inquinanti (di tutti i generi, con frequenti dominanze di prodotti tossici usati e abusati in agricoltura) con la conseguenza, leggete bene, che la biodiversità, animale e vegetale, è in grave pena. Per cui, alcune specie crescono, altre calano. Volendo scendere nel dettaglio, la consistenza e la diversità del patrimonio vegetale, lo sappiamo, dipende da come opera l'impresa agricola. O quella forestale. Non ci piove. Di conseguenza, nel regno animale, c'è chi cresce, gli ungulati, per esempio, che popolano soprattutto l'Appennino, pressochè abbandonato a sè stesso, e c'è chi langue, in particolare se le lande che vorrebbe frequentare nascondono micidiali sostanze, che a prescindere dall'effetto diretto, fanno piazza pulita del cosiddetto pabulum di cui si cibano questi esseri meravigliosi: uccelli di larga, per esempio, ma anche lepri, starne, insettivori in genere.
Tornando all'abbondanza degli ungulati, al netto della stupida accusa che è colpa dei cacciatori, a loro vantaggio pesa l'enorme polmone appenninico, abbandonato a se stesso, lo voglio ribadire, ma pesa anche l'irresponsabilità nella costituzione e nella gestione dei parchi, soprattutto sotto il profilo faunistico, proprio a causa di una visione ambientalista-animalista, unica in Europa, che trova la riprova della sua nullità nel momento in cui ad ogni tornata elettorale fa un passo indietro, mentre i problemi dell'ambiente si aggravano giorno dopo giorno. E qualcuno ci dovrà spiegare prima o poi perchè la Lipu, e il ministero dell'ambiente (più o meno oggi la stessa cosa), mentre denunciano questi contrasti - buona la presenza di uccelli silvani, nei boschi, più problematica la presenza di uccelli che frequentano terre coltivate, stando ai risultati di loro dirette ricerche - continuano a scaricare le responsabilità su di noi poverelli, e stanno zitti o giù di lì sulle vere cause del dissesto faunistico-ambientale.
Eppure i dati ci sono. I più recenti rapporti denunciano che la produzione agricola corrisponde a un quarto almeno delle cause inquinanti. E di certe trasformazioni ambientali. Avete presenti i vigneti, vanto e delizia dei nostri vinattieri? Vi sembrano uguali a quelli di cinquant'anni fa, dove prosperavano lepri e starne? E le piantagioni di meli e peri? Mah! Non è possibile immaginare che in monocolture di tale estensione, anche se bio, possano sopravvivere tutte quelle specie che un tempo erano la gioia degli occhi all'apertura agostana della caccia. Chi ha più visto un rigogolo? Chi un prispolone? E le starne, appunto? E le averle, e gli usignoli? E i beccaccini nelle risaie? Solo corvi, cornacchie, gazze, che fanno strame delle covate di altri uccelli, ma anche di leprotti e di altri piccoli abitatori delle campagne.
Adesso, ci si lamenta dei danni, quando per anni si è dato retta, e fiato - spesso in sintonia con altri inquinatori - a certe associazioni ambientaliste, finanziandone le campagne e utilizzandole come fiore all'occhiello.
Oggi siamo alla resa dei conti. Poco a poco ci si accorge, l'opinione pubblica si accorge, che i costi di certo sviluppo ricadono su tutti noi, che certe pratiche di agricoltura intensiva non tengono la concorrenza con i mercati globali (Cina, americhe in particolare), che per vendere i nostri prodotti bisogna tornare alle buone pratiche del tempo andato, al chilometro zero, al biologico (quello vero), ai pomodori e all'insalata del contadino. Col vino è un po' diverso. Difficile tornare indietro, adesso che abbiamo battuto la Francia e conquistato il mondo. Ma un pensierino ce lo dovranno fare anche loro, i vinattieri. E non sui caprioli che s'insinuano fra i filari, ma sui trattamenti che occorrono e che si riverberano sulla salute di tutti. Uno sprone, mi verrebbe da dire, per quel Carlo Petrini che ha ispirato e guidato questo fenomeno del ritorno alle buone pratiche degli avi, rivisitate in chiave contemporanea, al quale per la verità c'è sempre più gente che dà retta. Anche fra gli agricoltori.
Rolando Bocci