L'avversità della maggioranza alla caccia (anche se fosse vera) è un falso argomento perchè la caccia trova la sua legittimazione in una lunga tradizione che è entrata a far parte del costume e quindi il suo esercizio è come tutti i diritti, un diritto di libertà che può trovare il suo limite solo nella legge o nella lesione di un diritto altrui.
Infatti si provi ad immaginare se i diritti delle minoranze etniche, religiose, sessuali, linguistiche, culturali, politiche ed economiche dovessero dipendere dal consenso della maggioranza, o peggio, se la maggioranza avesse il potere di obbligare la minoranza a conformarsi al suo modo di vivere e, ad esempio, obbligare i vegani a mangiare carne o i non fumatori a fumare.
La misura della civiltà di una società è data dal grado di tutela delle minoranze.
Il riferimento all'equilibrio biologico è privo di fondamento perchè gli anticaccia ignorano che la selvaggina naturale (che potrebbe rientrare tra i beni ambientali) non esiste da più di mezzo secolo e gli animali cacciabili (con l'eccezione della selvaggina migratoria) sono in gran parte un prodotto del lavoro dell'uomo.
Per concludere, il vero "cavallo di battaglia" degli anticaccia, cioè la equiparazione del cacciatore che si diverte ad uccidere al macellaio, è il frutto di un espediente polemico di bassa lega, perchè estrapola l'uccisione dell'animale dalla sequenza delle azioni che nella loro inscindibile connessione sono la caccia, e a questo solo elemento, isolato in modo arbitrario, attribuisce un significato del tutto inappropriato, perchè lontano dalla realtà.
Va ricordato che la sociologia comportamentale insegna che la dimensione valoriale di un atto deve essere rapportata al suo proprio contesto di riferimento, perchè è questo a determinare la condizione psicologica dell'agente e se si trascura questa regola applicando la logica usata dagli anticaccia ad alcune attività umane, ne emerge l'assurdità.
Il buongustaio che sceglie una bistecca non lo fa per fame e non si cura della morte dell'animale, ma sarebbe insensato sostenere che è la morte dell'animale a dargli il piacere della tavola.
Il soldato che in guerra spara al nemico non è un assassino, anche se priva un essere umano della vita, perchè nel contesto bellico applica la prassi secondo la quale il nemico è un pericolo da eliminare, e perciò agisce senza volontà e coscienza delle conseguenze dello sparo.
E ancora, il chirurgo notomizzatore seziona il cadavere con la stessa attività materiale dell'assassino che lo taglia a pezzi, ma chi può pensare che la materialità dell'azione parifichi la condizione dei due?
In generale poi anche la sensibilità verso la perdita di vite umane non risponde a criteri uniformi; si pensi alla forte indignazione verso gli incidenti sul lavoro o causati dall'inquinamento ambientale, e all'indifferenza verso gli incidenti di macchina (incomparabilmente più numerosi).
La caccia trova il suo codice giustificativo in un contesto antropologico-culturale consolidato in una prassi atavica, socialmente metabolizzata, che genera la condizione psicologica di indifferenza morale del cacciatore che spara, perchè questo è conforme alla prassi venatoria.
Enrico Fenoaltea
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