Non voglio esagerare, ma si stava meglio quando si stava peggio. Che sia per colpa dell'età? Può darsi, di primavere ne sono passate tante, ma all'ombra di questa immensa tragedia del Covid, viene da apprezzare di nuovo anche quel poco di "concessioni" che la nostra modesta classe dirigente riesce a partorire. Per la caccia, per esempio, devo dire che la gran parte dei governatori regionali ha fatto il possibile per consentirci quel minimo di attività, a dispetto di quei boccaloni degli anticaccia che gridavano allo scandalo. Il che vuol dire che quando si vuole si può. C'è qualcuno, in verità, che racconta un'altra storia. Non è stata la "potente" lobby dei cacciatori a convincerli, ma gli agricoltori - e qualche conferma in questi giorni sta maturando, purtroppo - gli unici che non hanno mai smesso di lavorare in pandemia, preoccupati - così dicono - che cinghiali e ungulati vari, soprattutto, facessero man bassa del frutto delle loro fatiche.
Di sicuro, cinghiale e company costituiscono gran parte del carniere dei cacciatori italiani. Ma - leggevo anche recentemente - per chi ci sa fare e ha un po' di tempo, magari qualche spicciolo da spendere, non mancano le occasioni anche in altre specialità venatorie. Compatibilmente con le disponibilità degli specifici "soggetti" del desiderio. Cioè la selvaggina, che, diciamolo ancora una volta, si trova o non si trova se le condizioni ambientali ne consentono la presenza. Per questo il richiamo alla nostalgia del bel tempo andato batte forte nel cuore di chi certe emozioni le ha provate. Si torna sempre lì: in questi ultimi cinquant'anni il nostro territorio, da nord a sud, soprattutto a nord, soprattutto nelle pianure, ha subito enormi trasformazioni. In peggio, purtroppo. Il nostro paese è quel meraviglioso stivale che si allunga nel Mediterraneo, infinitamente ricco di quella che oggi chiamano biodiversità, indissolubilmente interconnessa, che consente a centinaia di specie selvatiche di essere presenti o di venirci a visitare nel corso delle stagioni. Peculiarità che ci ha consentito forse più che altrove di diversificare le nostre cacce. Industrializzazione e moderna agricoltura (intensiva) mettono sempre più a rischio questo patrimonio: a mano a mano che perdiamo suoli agricoli o forestali, a mano a mano che le colture agricole si specializzano (solo cereali, solo frutteti o vigneti, per esempio), e più soffriamo per l'assenza di fauna selvatica, in particolare di specie ornitiche. La parcomania, il perbenismo metropolitano, che nelle sue espressioni peggiori diventa feroce animalismo, fanno il resto, consentendo per contro il proliferare di specie opportuniste che la fanno da padrone: il cinghiale è una di queste. Spesso a danno di altre specie selvatiche. Tutti noi verifichiamo quotidianamente i disastri provocati da nutrie, volpi, corvidi, storni, e altri candidi animaletti.
Difficile perciò il mestiere dell'ambientalista vero. Scopro da qualche tempo, tuttavia, che fra le nostre giovani leve, pur con diversa sensibilità (per strati sociali e per collocazione geografica), sta rinascendo quella consapevolezza (olistica, direbbero quelli acculturati) che ci ha consentito per secoli, a tutti noi: agricoltori, cacciatori, pescatori, naturalisti, filosofi e benpensanti di varia estrazione, di comprendere gli stretti legami fra gli esseri viventi, il segreto della vita, l'ineluttabilità dei ricambi stagionali, generazionali ed epocali, le immutabili leggi dell'universo. La ricchezza anche per le nostre anime di questo meraviglioso patrimonio che ad ogni alba ci sorprende e ad ogni tramonto ci confonde.
Per questo, anch'io, che mi sento profondamente di amare la natura, il creato tutto, tanto quanto pervicacemente mi sento cacciatore, finchè potrò, continuerò a sognare (e se possibile a praticare) tutte le cacce - stagione per stagione, territorio per territorio, montagna, collina, pianura, palude - a quelle meravigliose creature a due e quattro zampe che mi hanno rallegrato per tutta la vita. Anche a tavola.
Spero che non me ne vogliate.
Roberto Cantori
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