Quando parliamo di selvaggina il pensiero va subito agli odori, ma soprattutto ai sapori, di indimenticabili arrosti, succulenti spiedini, salsicce, braciole al sangue, intingoli, insomma alla carne, quella buona e di altissima qualità. Come ben sappiamo, in Italia da un po' di tempo a questa parte si parla con entusiasmo dell'esigenza di trasformare il problema dell'eccessiva presenza dei selvatici in una risorsa economica. Sulla carta sembra un ovvio passaggio, buono da tutti i punti di vista, compreso quello della sostenibilità ambientale (prodotto della natura, rinnovabile, la cui gestione è necessaria). Ma nella realtà abbiamo una situazione caotica e frammentata dovuta a infinite pastoie burocratiche, ma anche a problemi più complessi che coinvolgono non solo gli ambientalisti/animalisti, ma anche il rapporto fra cacciatori e agricoltori. Anche perché, di fatto, in gioco c'è la disponiobilità del bene selvatico abbattuto e dunque anche l'annosa questione dell'842 del Codice Civile. In parole povere, più che la compensazione dei danni, per gli agricoltori potrebbe costituire integrazione al reddito la disponibilità esclusiva di quel patrimonio che almeno periodicamente stanzia sulle loro terre.
Al di là delle intenzioni, in Italia al momento è difficile parlare di filiera della cacciagione. Come bene veniva ricordato tempo fa da Michele Milani, che a questo scopo sta dedicando il suo impegno editoriale,attualmente il 90% della carne di selvaggina servita nei ristoranti italiani proviene dall'estero. In sostanza manca ancora un sistema consolidato che consenta la commercializzazione della selvaggina abbattuta nelle nostre contrade.
Da tempo si dice che la carne di decine, centinaia di migliaia di ungulati selvatici, paventata anche in eccesso, potrebbe a buon diritto finire fare la sua bella figura sulle tavole degli italiani ed essere trattata come una delle migliori materie prime disponibili a km zero nei nostri mille mila ristoranti e trattorie. Sarebbe un'occasione (forse l'unica) di rivalsa sociale, economica ed ambientale, che però stenta a decollare.
Se per il marchio e la commercializzazione siamo ancora molto lontani, le prove generali per l'attivazione di una filiera della selvaggina ci sono, anche se per ora sono solo dei timidi esempi, partiti un po' troppo a rilento, soprattutto in Toscana e in Emilia Romagna, ma anche in Lombardia di recente.
In Toscana il numero di cacciatori sensibilizzati al riguardo, "formati", come si dice, è in costante aumento. La cosiddetta e tanto discussa legge obiettivo ha previsto che gli ATC si dotino di centri di sosta (CS) e si convenzionino con centri di lavorazione carni di selvatici (CLS). Attualmente dei nove Atc della regione, salvo aggiornamenti, quattro hanno attivato centri di sosta (SI, PT, AR, PI) e tre Atc (PT, SI e PI) hanno attivato convenzioni con i centri di lavorazione carni. Gli Atc privi per ora di convenzioni attive hanno comunque intrapreso un “percorso” mirato all’attivazione di convenzioni con i centri di lavorazione carni di selvaggina. Ma la filiera vera e propria ancora non si percepisce.
Un po' meglio in Emilia Romagna, dove grazie anche all'impegno di Milani e alla collaborazione di chef stellati, primo tra tutti Igles Corelli (Mercerie, Roma), ma anche Isa Mazzocchi (La Palta di Bilegno, PC), Valentino Mercattili (San Domenico di Imola), Maria Grazia Soncini ( La Capanna di Eraclio, Codogno, Fe), Bruno Bottura (Osteria Francescana), che ne esaltano la caratteristica principale (materia prima di alta qualità), si sta costituendo il primo marchio per valorizzare la Selvaggina di Filiera dell'Emilia Romagna. L'obiettivo è quello di arrivare al consumatore con tutte le informazioni che garantiscono la qualità del prodotto, nel rispetto dell'ambiente, del benessere degli animali selvatici, con prelievi ben ordinati, processi di trasformazione che permettono di preservare le proprietà organolettiche della carne e assicurarne la qualità anche dal punto di vista sanitario. I cacciatori sono i protagonisti dato che saranno loro a rifornire il sistema. Sotto la garanzia del marchio di filiera, collegato a un serio disciplinare di produzione.
Qualcosa di simile è quanto promosso anche dalla Fondazione Una, con il progetto Selvatici e buoni, che si prefigge di promuovere il metodo in tutto il paese, sotto l'egida fra l'altro dell'Università di Pollenzo, con la benedizione delldi Slow Food, promotore del prestigioso Salone del Gusto di Torino, dove si celebra anche Terra Madre, rete mondiale del cibo di qualità collegato alle tradizioni dei territori. Una scelta intelligente utile a proporre se non imporre la sostenibilità della caccia in quegli ambiti purtoppo oggi dominati da un ambientalismo salottiero, che ci vede come il fumo negli occhi.
Diciamocelo: la caccia di domani passa necessariamente da qui. E' dunque necessario non perdere questo treno, che forse consentirebbe a tutto il settore di riprendersi un ruolo attivo e propositivo nella società. Porta di accesso attraverso la quale riproporre questioni importanti che riguardano la caccia italiana, sempre meno cacciata e sempre più tartassata. Ingiustamente.
Cinzia Funcis