Proprio una passione! Non solo per chi, come noi, li considera bramato oggetto di desiderio venatorio. No. In questi ultimi tempi sembra sia scoppiato il problema cinghiale anche per gli altri.
Quelli che di fauna selvatica, caccia, tutela dell'ambiente e via discorrendo sanno solo quello che si sente dire in televisione o si legge nelle cronache dei giornali. Nel bene e nel male. Ovviamente. E il bene e il male variano a seconda della sensibilità di ognuno, con una propensione preoccupante a condividere le affermazioni di coloro che hanno maggiore possibilità di accedere ai grandi mezzi di comunicazione.
L'altro giorno, tutti abbiamo letto, ad esempio, di un signore che si faceva accompagnare da un cinghialotto al guinzaglio. Potrebbe essere il primo passo per una domesticazione a fini diversi della specie (peraltro già domesticata, perchè scientificamente il cinghiale è definito "sus scrofa", come il maiale).
Sbizzarrendosi, le opzioni sono varie. Con un po' di fantasia, si potrebbe pensare al cinghiale da ferma, o da riporto, o per la cerca dei tartufi. Altri si potrebbero indirizzare molto più prosaicamente alla messa a punto di razze da carne (es: il prosciutto di cinghiale dolce di Parma, il San Daniele col pelo, il cinghiale di cinta senese, e via così).
Altri ancora, e sono - sembra - i più convinti, potrebbero mirare al cinghiale da compagnia, da esibire come figlioccio (ormai, non è così anche con certe razze di cani: immiserite da fiocchi, fiocchetti, riccioli, gonnelline e profumi?).
D'altra parte, questi ultimi non sarebbero neanche tanto originali, visto che già da qualche anno i divi di Hollywood e i vip della Grande Mela, soprattutto attricette in cerca di notorietà a buon mercato, girano fra un salotto glamour e l'altro col maialino rosa, profumato e infiocchettato, al guinzaglio, da esibire come l'ultimo grido dell'animalismo.
Senza sapere, magari, che anche il maiale, poi cresciuto, diventa incontrollabile e comunque ingestibile soprattutto nei salotti e nei circuiti metropolitani. Ve l'immaginate un pet (così li chiamano oggi i nuovi "giocattoli animati" da divano) di due o trecento chili, sulle strisce pedonali affollate da un'umanità stressata, o nella hole di un grande albergo, mentre spetacchia sul pavimento chili e chili di liquame viscido e puzzolente? Senza sapere, aggiungiamo, che in altre culture, bastano alcuni maiali famelici rinchiusi in uno stabbio per far sparire ogni traccia di persone sequestrate, buttate vive, lì, come pasto crudele, ma particolarmente gradito. E, guardate, per far cambiare abitudini alimentari a una specie animale, non bastano secoli, e forse neppure millenni! Figuratevi quindi, se la moda insieme al maiale cooptasse anche il cinghiale.
Ma, il problema su cui si dibatte oggi è soprattutto un'altro! I cinghiali, in Italia, ormai quasi ovunque, sono troppi! Lo confermano le cronache. Lo confermano le proteste degli agricoltori. Lo confermano i provvedimenti delle amministrazioni locali, che si stanno trovando di fronte a un'emergenza, per troppo tempo volutamente ignorata.
C'è chi dice, lo sappiamo, che l'enorme proliferazione del cinghiale è dovuta alle immissioni dell'irsuto porcastro, effettuate dai cacciatori una ventina di anni fa. Si dice ancora che è' dovuta alle pressioni dei cacciatori che si oppongono a una razionalizzazione del problema.
Agli interventi di tutela e di sostegno alimentare che i cacciatori praticano, per mantenere consistenti le popolazioni sul territorio. Può darsi, ma per questo i cacciatori non si sono mai sottratti a un confronto per trovare soluzioni equilibrate e condivise. Basta ricordare la mappatura delle aree vocate e non vocate per la presenza e quindi per la caccia, l'adozione di provvedimenti straordinari per il controllo delle popolazioni (non solo di cinghiali) che recano danni alle colture agricole, la disponibilità a collaborare per azioni di verifica e di successivo controllo in aree escluse alla caccia.
Non è una questione di ripopolamenti, come si vuol far credere. Il problema è un'altro. E' l'impostazione di stampo animalista che si è voluto dare in Italia, ormai da più di venti anni, a tutto ciò che riguarda la gestione di fauna e ambiente. La legge sui parchi, ad esempio, frutto di una battaglia veteroecologista promossa da associazioni (WWF, con Fulco Pratesi in testa, e altre), verdi e variegate lobby finanziarie (qualcuno ricorda l'orribile vicenda dell'Icmesa di Seveso, il cui capo dei capi era un potente leader del WWF Internazionale? Qualcun'altro ha memoria di un certo capo dei petrolieri italiani, pubblicamente riconosciuto persona benemerita dai dirigenti del WWF nostrano?).
La conseguente divisione fra buoni e cattivi: da una parte, praticamente soli, i cacciatori: brutti sporchi e cattivi. Dall'altra i buoni, quelli che proteggevano fauna selvatica e ambiente, senza tener conto - rileviamo noi - che in un contesto antropicamente affollato come il nostro se non c'è una corretta pianificazione e una conseguente equilibrata gestione di tutti i soggetti presenti sul territorio, è inevitabile che scappi di mano tutto.
Il fenomeno cinghiale non è nè più e nè meno che quello, ormai sotto gli occhi di tutti, riferibile ai piccioni di città e agli storni. Quanto tempo ancora dovrà trascorrere, quanti errori, qaunti ricorsi al Tar da parte degli animalisti, quanti soldi dei cittadini si dovranno ancora spendere prima di capire che la soluzione è una e una sola: eliminazione drastica e definitiva di quei contingenti che infestano le aree "non vocate"? Chi riuscirà a convincere i nostri amministratori e governanti (e prima di loro l'opinione pubblica che non va contraddetta perchè è fonte di cospicui pacchetti di voti) che in tempo di vacche magre, come ci prefigurano tutti gli indicatori economici nazionali e internazionali, certi sprechi non ce li possiamo più permettere?
Come spiegheranno, da qui in avanti, gli stessi nostri governanti che è meglio pagare centinaia di milioni, forse miliardi, di Euro erogati ai carrozzoni dei parchi (fonte di reddito di molti ambientalisti di maniera) per tenere sotto controllo le popolazioni di specie "indesiderate" nei parchi, se non addirittura proteggerle - e le preoccupazioni non provengono solo dai cinghiali o dagli storni, o dai piccioni: sta crescendo la pressione sul territorio anche delle popolazioni di caprioli cervi e daini -, quando basterebbe prima di tutto coinvolgere i cacciatori, che a costo zero, sulla base di precisi programmi di intervento, potrebbero contribuire alla soluzione del problema?
Quando, in ogni caso, basterebbe affrontare la questione in maniera complessiva, considerando il territorio come un'unica realtà da gestire, che sia parco, terreno coltivato, forestato, produttivo o improduttivo, urbanizzato, cacciabile o non cacciabile?
Ma torniamo al cinghiale. A Trieste, ce lo ha detto anche Margherita Hack a "Che tempo che fa", i cinghiali sono in città. A Genova pure, come testimoniano le immagini del TG1 di qualche sera fa. Frequentano gli orti urbani e le discariche alla ricerca di cibo. Se non si prenderanno provvedimenti, il problema degli storni o dei piccioni lo ritroveremo moltiplicato a livello esponenziale.
Una cosa è certa. Non ci può essere cacciatore o guardia zoofila o cecchino prezzolato che possa risolvere un emergenza del genere. Il problema è là fuori, nelle campagne. Il cinghiale affamato percorre in una notte decine di chilometri. Vive in comunità ed ha una capacità di trasmettersi informazioni che ha dell'incredibile. Se una discarica cittadina sarà in grado di offrire cibo a buon mercato, in poco tempo sarà la mensa di torme di cinghiali. Che torneranno ai loro covi nei boschi alle prime luci dell'alba, per farvi visita di nuovo al successivo calar del sole.
E' questo che vogliono gli animalisti? E' questo che vogliono gli amministratori pubblici?
In Toscana, dove il cinghiale è presente da sempre, il problema della sua proliferazione e del conseguente controllo, soprattutto nei terreni coltivati, è stato affrontato da tempo. Di conseguenza, negli ultimi due decenni, sono state adottate misure adeguate di contenimento. Oggi, anche in Toscana, la situazione necessita nuova attenzione. I cinghiali - ma non solo - possono diventare un problema, soprattutto economico, se si pensa ai danni arrecati alle coltivazioni. Quali le ragioni? Essenzialmente due.
La prima va individuata nel ridotto numero dei cacciatori. Un paio di decenni fa, nella regione, i cacciatori erano 230.000. Oggi, a malapena, si attestano intorno alle 100.000 unità. La seconda è da ricercare nella inadeguata legislazione, nazionale e di conseguenza locale, che attiene all'assetto del territorio. Gli organi di gestione (ATC) hanno competenza solo sulle aree dove è permessa l'attività di caccia.
Altrove, parchi, aree protette, demanio, aree urbanizzate, le regole che sovrintendono alla gestione del territorio sono di tutt'altro genere, diverse, di natura protezionistica. Inadeguate a tenere sotto controllo la situazione. In periodo di caccia o quando soggetti ad azioni di contenimento, i selvatici si rifugiano nelle aree protette.
A caccia chiusa, tornano a diffondersi su tutto il territorio. I danni sono ingenti, di qua e di là. Per ora, per rifondere quelli in terreno libero si attinge ai fondi dei cacciatori. Le amministrazioni dei parchi pensano a rifondere i danni in area parco. Le casse degli uni e degli altri, parchi e cacciatori, cominciano a soffrire.
Il rimedio ci sarebbe. Riunire il tutto sotto un' unica gestione. Facile, no?
La Regione Toscana sono almeno un paio d'anni che si sta adoperando per risolvere la questione.
Dopo numerosi incontri, altrettante ricerche e indagini tecniche e scientifiche, audizioni con agricoltori, ambientalisti e cacciatori, il 13 e 14 febbraio ha indetto a Arezzo la Conferenza regionale sulla caccia. Non sarà un incontro definitivo, ma il punto di partenza, tutti d'accordo, non solo per risolvere il problema dei danni dei cinghiali.
Sarà il trampolino di lancio di un nuovo modo di intendere il rapporto fra caccia, ambiente e territorio. Con agricoltori, cacciatori e ambientalisti considerati sullo stesso piano, protagonisti nella gestione, aldilà degli interessi di parte, che così - è auspicabile - saranno meglio tutelati.
Se l'iniziativa avrà successo, c'è da augurasi che venga estesa anche alle altre regioni italiane.
Se rimarrà un esempio altrove inapplicato, sentiremo presto, in bocca ai genovesi come ai triestini, ai piemontesi come ai marchigiani, agli agricoltori come agli ambientalisti, risuonare quella colorita e trista invocazione romanesca ("aridatece er cacciatore") che suonerà a beffa e disdoro di un mancato rinnovamento per tutti coloro che a partire dall'ultima parte del secolo scorso ci hanno incolpato per la scomparsa di quel patrimonio naturale che per noi, forse più che per altri, era fonte di vita e di interesse. Ma perchè mai avremmo dovuto privarcene?